Attacco al cuore

Pubblicato il 16-05-2016

di Lucia Sali

di Lucia Sali - Martedì 22 marzo, una mattina come tante, con le vacanze di Pasqua che si avvicinano, le prime partenze, le ultime corse in ufficio prima della pausa primaverile.
Bruxelles si sente più serena dal venerdì precedente, con la cattura dopo 4 mesi di latitanza del ricercato n.1 per le stragi di Parigi, Salah Abdeslam. Il 26enne è stato preso in un appartamento di amici vicino a casa sua, a Molenbeek, il comune della capitale belga che i media hanno stigmatizzato come culla del jihadismo e che celebra ora i 70 anni di immigrazione italiana nell’area, arrivata al tempo delle miniere e di Marcinelle.

Alle 7.58, però, nell’area partenze e check-in dell’aeroporto di Zaventem, a trenta secondi una dall’altra esplodono due bombe. Le notizie sono confuse, rimbalzano le prime immagini su Twitter, arrivano messaggi whatsapp, subito si capisce che la situazione è grave. Alle 9.11 la terza bomba, alla fermata metro di Maelbeek, a qualche centinaio di metri da tutti i principali palazzi delle istituzioni Ue, sulla linea più frequentata nell’ora di punta. C’è voluta una settimana per arrivare a chiudere il conteggio delle vittime e a identificarle. A terra per sempre, tra le macerie del tetto dell’aeroporto e le lamiere della metro, sono rimaste 32 persone, 17 belgi e 15 stranieri tra cui l’italiana Patricia Rizzo, funzionaria all’Agenzia europea per la ricerca (Erc), e molti giovani di neanche trent’anni. Centinaia i feriti, di cui 89 tuttora gravi, la metà stranieri di 20 nazionalità diverse.

Eppure i nomi di chi ha azionato le cinture esplosive erano tutti noti: ricercati per gli attacchi terroristici di Parigi del 13 novembre, una mattanza da 130 morti. Persone, tra l’altro,già schedate dall’intelligence di diversi Paesi, segnalate come possibili jihadisti, partiti in Siria o radicalizzati in Europa, e in diversi casi addirittura già condannati in contumacia a 15- 20 anni di reclusione, come la mente di Parigi Abdelhamid Abaaoud o uno dei kamikaze di Bruxelles, Najim Laachraoui, la cui sentenza risale al 29 febbraio, tre settimane prima degli attacchi. A questo si aggiungono la mancata cattura degli altri due fratelli kamikaze El Bakhraoui, letteralmente evaporati sotto il naso della polizia franco-belga da un appartamento del quartiere di Forest una settimana esatta prima degli attentati, e un interrogatorio pro-forma di neanche due ore a Salah Abdeslam due giorni prima.

Se le mancanze delle autorità belghe, su cui il Parlamento federale vuole aprire una commissione d’inchiesta, sembrano evidenti, ancor più è carente la risposta di quell’Europa di cui i terroristi hanno voluto attaccare il simbolo colpendo Bruxelles. Come già dopo Parigi, si sono riuniti d’urgenza i ministri dell’interno dei 28, per ribadire quanto già detto allora: più cooperazione tra forze di polizia e intelligence, più condivisione delle informazioni, pugno duro coi foreign fighters. E proposte di nuove misure “entro giugno”.
Ma l’unica risposta concreta, finora, sembra essere una sola: più sicurezza nei luoghi pubblici, più controlli in aeroporti e metro, più soldati armati nelle strade.
Lasciando cadere nel vuoto la domanda che l’ex professore del kamikaze di Zaventem ha rivolto a tutti scrivendo ai media: “Najim, come hai potuto arrivare sin là?”. Mentre si moltiplicano, anche nella tollerante Bruxelles, le manifestazioni anti-islam di gruppi di estrema destra.

 

 

 

 

 Rubrica di Nuovo Progetto

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