Gli occhiali dell'amicizia

Pubblicato il 17-09-2016

di Annamaria Gobbato

Di Annamaria Gobbato - Giancarlo e Laura con i figli Carlo e Francesco hanno incontrato il Sermig già da alcuni anni. Vivono a Roma, ma quando i ritmi del lavoro e della famiglia lo consentono frequentano l’Arsenale della Pace di Torino. Quando sono a casa, fra le altre cose, si prendono cura di alcuni aspetti tecnologici del nostro portale, ma soprattutto frequentano le periferie difficili della capitale, quelle dove vivono i Rom.

L’attività della nostra famiglia nei campi Rom è iniziata nell’estate del 2011, racconta Laura, coinvolti da un sacerdote che era il responsabile del Seminario Maggiore di Roma. Era anche l’assistente spirituale di alcuni seminaristi ai quali proponeva un servizio diverso da quelli canonici, in località particolarmente disagiate. E così con loro abbiamo iniziato anche questa missione nei campi rom.

All’inizio eravamo molto titubanti. Ricordo che sono arrivata al campo di Salone, particolarmente disagiato, senza documenti, senza soldi, senza chiavi, senza nulla che potessero rubare e che quando sono uscita avevo due borse di regali dei bambini rom! Poi la missione presso questo campo è stata sospesa a seguito di episodi di violenza e abbiamo continuato in un altro campo.

Pensare che in quel campo c’era stato anche un episodio carino: una bimba, che si faceva chiamare Valentino perché nella loro cultura l’uomo conta più della donna, continuava a picchiarci tutti, grandi e piccoli. Pensando allo slogan del Sermig disarma il cuore le avevo detto: “Noi siamo venuti per giocare con voi, continua pure così, ma vedrai che non reagiremo. Figurati se alzo le mani contro una bambina, io vorrei solo giocare con te”. Lei sbuffando se ne era andata via arrabbiata. Poi, prima di rientrare a casa, le avevo chiesto: “Dopo tutti gli schiaffi e gli sputi che ci hai mandato, ce lo siamo meritati un bacio?”. E lei si era sciolta, abbracciandomi stretta.

Il campo dove andiamo ora in maniera continuativa non è più all’aperto, con le roulotte, ma è situato in una ex cartiera: in pratica sono camerate divise tra loro da pareti di legno che delimitano gli spazi per ogni famiglia. Da qualche anno abbiamo anche cominciato a portare i bambini nella chiesa di una parrocchia vicina al campo. Si trova in una zona di periferia con case modeste, dove non c’è un alto tasso di immigrazione e gli abitanti hanno posizioni politiche tendenzialmente di destra. È stato possibile grazie alla collaborazione del parroco e alle suore di Madre Teresa che hanno una casa nei pressi. Con loro facciamo oratorio e laboratori di creatività, il catechismo classico non riusciamo a farlo.

I ragazzi che seguiamo più o meno sono sempre gli stessi, grazie al fatto che ci siamo conquistati la fiducia delle famiglie che si sono fidate ad affidarceli. All’inizio, durante la messa l’accoglienza di questi bambini da parte dei parrocchiani è stata lenta. In chiesa i bambini erano particolarmente vivaci, qualcuno strillava, qualcuno correva e questo creava un po’ di disagio. A sbloccare la situazione è stato il gesto di un sacerdote rogazionista che ha animato la messa pensando proprio a loro: “Al segno della pace vince chi stringe più mani”. Figuratevi i fedeli assaliti da turbe di bambini Rom con la mano tesa! Poi: “Vince chi torna per primo al suo posto!”. E tutti rientravano nei ranghi... La carta vincente nei rapporti con la parrocchia è stata proprio questa: i bambini non hanno pregiudizi e quindi hanno adottato il parroco e i frequentatori della parrocchia che a loro volta hanno ricambiato con pacchi di caramelle, cioccolatini, quaderni... Poi un giorno il parroco ha proposto ai bambini Rom di ricambiare l’accoglienza con un dono. Abbiamo pensato allora di realizzare un grande cartellone da appendere in parrocchia, su un tema del Vangelo. Detto fatto: insieme a loro abbiamo realizzato un collage che raffigura Gesù e Pietro sulla barca, con le reti e i pesciolini appesi alle reti. Ogni pesciolino ha il nome di un bambino. Nessuno di loro ha scelto il proprio pesce, proprio per indicare che nessuno sceglie di essere come è: biondo, bruno, gagè o rom... Seguendo questa traccia il lavoro creativo è stato accompagnato da varie catechesi con domande semplici, del tipo: “Ma Gesù vuol più bene a chi è biondo o a chi è moro, a chi è alto o a chi è basso, agli scout o a chi non è scout, ai Rom o ai gagè?”. A tutte, i bimbi hanno risposto: “Uguale!”. E non era scontato!

Certo, non sono tutte rose e fiori. I bambini rom, tranne poche eccezioni, frequentano la scuola saltuariamente. Alcuni hanno atteggiamenti violenti e questo crea difficoltà sia con gli insegnanti sia con le altre famiglie, ma con il nostro lavoro vogliamo rompere questo cerchio di diffidenza e di pregiudizi. Mio figlio Carlo, quando parla del suo amico Catalin, parla del suo amico, non del bambino che io aiuto per il doposcuola e quando sarà adulto lo vedrà con gli occhiali dell’amicizia non con quelli del pregiudizio. E ai suoi figli trasmetterà questo insegnamento, chiedendo però una reciprocità di trattamento.

Lo dico alle mamme dei bambini: “Mio figlio non reagirà mai contro il tuo che magari gli sputa addosso, ma sappi che io non posso permettere che succeda qualcosa di più grave. Nel caso, non lo potrò più mandare a giocare con tuo figlio”. I miei figli questo lo sanno e vanno sicuri. Anche perché io dico loro sempre che per i bambini Rom scaricare le tensioni è molto più difficile che per loro, che alla fine della giornata tornano nella loro casa calda e pulita con la tv e altro.

La cosa bella che ci piacerebbe realizzare – racconta Giancarlo – è l’integrazione: distribuire i vari gruppi famigliari sul territorio in modo che ogni parrocchia possa farsene carico. In un quartiere la presa in carico di una famiglia non è un peso impossibile, si può fare.



Foto: Marotta / NP

 

 

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