Diario di una guarigione

Pubblicato il 02-11-2016

di Elisa D’Adamo

di Elisa d’Adamo - “Sarà difficile ma non voglio più odiarmi”. Comincia così il faticoso e necessario percorso di guarigione di Elena Cecchele, ventidue anni e una concreta e dolorosa storia tra anoressia e bulimia, che lei stessa ha deciso di mettere nero su bianco nel libro autobiografico: “La ragazza di stecco e mele”. Un diario sugli aspetti più intimi e taglienti dei disturbi alimentari, ma anche un racconto da cui emerge una maggior consapevolezza di ciò che si è, di ciò per cui si decide di lottare, della fiducia nella possibilità di tornare ad essere felici. Abbandonare la strada dell’odio, riuscire a vedere la luce in fondo al tunnel, farsi attraversare dal male e dal dolore per conoscerli al meglio, capire come combatterli e infine vincerli. Il diario ripercorre momenti, situazioni, atteggiamenti fisici e mentali in un lasso di tempo che va dal dicembre 2012 all’agosto 2014. Elena si apre e fa scivolare sulla carta lacrime e parole, senza filtri o falsi moralismi. Ci fa camminare con lei in un percorso pieno di ostacoli, fisici ed emotivi, regalando una testimonianza preziosa a tutte le persone tormentate da questo o da altri disturbi.

Ma la sofferenza umana ci rende più sensibili, consapevoli e rispettosi nei confronti del vissuto altrui e la nostra protagonista oggi si considera, paradossalmente, fortunata per aver sofferto, per aver attraversato la tempesta. “Se non fossi stata io stessa malata, molto probabilmente ora sarei molto più superficiale, indifferente, banalmente appiattita alla soglia della normalità”. La malattia ha dotato Elena di una sottile e profonda sensibilità nei riguardi di se stessa e degli altri. “Questa è la fortuna inestimabile di chi ha sofferto. Nel momento in cui ci si svincola dalla propria esistenza malata, si riesce, man mano, a trasferire l’attenzione, che prima si riponeva esclusivamente su se stessi, anche sull’altro. E molte volte si scopre di non essere stati i soli ad aver camminato a braccetto con la morte. E quasi si gioisce, perché ci si accorge che è nato un sesto senso, che fa percepire il disagio altrui senza che questo lo confessi”. Queste fertili considerazioni nascono da mesi di lotta, di fatica, di smarrimento, di vuoto, di impegno e da gesti di odio e d’amore. Fin dalle prime righe del diario emerge il ritratto di una ragazza molto determinata ma anche esasperata e fragile, che trova il suo riscatto in una falsa forza fondata su obiettivi per i quali è disposta a mettere in gioco tutta se stessa: raggiungere una forma fisica perfetta, far abbassare sempre di più il numero di kg indicato dalla bilancia, sentirsi diversa dalle altre persone. Sentirsi migliore. Col passare dei mesi, il giudizio nei confronti della fisicità degli altri diventa aspro, spietato, privo di moralità e razionalità. L’altro diventa un individuo da condannare che non si rende conto della malformazione che sta operando sul suo corpo. Come dice la stessa autrice: “Era come se ci fosse una guerra civile all’interno della mia testa. Riversavo sugli altri la moralità che in me non riusciva a prevaricare sull’assurdità e l’ostinazione dei miei pensieri negativi”.



Elena provava un profondo bisogno di sentirsi padrona del suo corpo e delle sue scelte
e il controllo ossessivo del cibo e delle calorie si era dimostrato, in breve tempo, un mezzo pericolosamente funzionante. Questo mostro ha un nome: anoressia. Questo mostro ti isola dal contesto esterno, è come un filtro che condiziona ogni aspetto della quotidianità e delle relazioni con gli altri. Questo mostro genera odio, odio verso se stessi e verso la vita. Elena, fortunatamente, non abbandona, neanche durante i suoi periodi più difficili, né lo studio né la pratica della marcia, sport nel quale si distingue grazie a costanza e tenacia. Ma tutto ciò cela un risvolto negativo: ha infatti un bisogno struggente di sentirsi invidiata e apprezzata. “Voglio che l’unica cosa che mi possano dire le persone che mi vedono, sia che mi invidiano. Io sono una ragazza che controlla il proprio peso. Sono più intelligente di chi si lamenta dei chili di troppo senza però riuscire ad agire”.

La spirale dell’odio diventa ancora più buia e profonda con le abbuffate e la pratica dell’induzione forzata al vomito. Un altro terribile mostro chiamato bulimia, tramite il quale si rigetta non solo la grande quantità di cibo ingerita in pochi minuti, ma anche il peso della coscienza che si fa sempre più insopportabile. Una pratica liberatoria.

Il meccanismo che solitamente scatta nelle persone che soffrono di questo disturbo è ben rappresentato dalle parole impresse nelle pagine del diario in una calda giornata di agosto dell’anno 2013: “Posso smettere di vomitare quando voglio e quindi il problema non sussiste. La mia non è bulimia, dal momento che sono io a stabilire se vomitare o meno. Nonostante il sentimento di successiva mortificazione, realizzo che ho fatto la cosa giusta”. Ma purtroppo questa è una vera e propria malattia che prende il sopravvento e ti consuma da dentro. Tre anni immersa nell’odio. Ma grazie all’aiuto della famiglia, agli incontri e alle esperienze della vita, che continua nonostante tutto, al so-stegno di medici e psicologi, Elena ha potuto scrivere il secondo tempo della sua storia. Come dice lei stessa: “Noi siamo più forti delle nostre debolezze. I requisiti di cui dobbiamo disporre per cambiare sono un briciolo di serenità, la giusta dose di predisposizione all’ascolto della propria interiorità e delle testimonianze altrui e un pizzico di amor proprio”. E aggiunge: “Bisogna essere motivati al cambiamento, altrimenti non c’è terapia che tenga”. Elena indica alcuni aiuti salvavita che l’hanno sostenuta nel suo cammino verso l’amore e l’accettazione di sé. Tra questi, coltivare una passione, avere un obiettivo ben preciso, non smettere di sognare, uscire dal tunnel dall’autocommiserazione e smettere di rimuginare, per buttarsi, con forza d’animo, nelle nuove sfide della vita. Come spesso accade, il confronto e le relazioni con gli altri si rivelano salvifiche. Nella storia di ognuno serve il contributo di tutti e così, grazie alle esperienze legate al suo tirocinio come educatrice, al volontariato in Croce Rossa e a quello estivo realizzato proprio tra le mura del Sermig, Elena comprende che deve combattere e combatterà perché, come lei stessa afferma “Non voglio essere intrappolata dentro me stessa! Voglio accorgermi anche degli altri. Voglio impegnarmi ed esserci per queste persone, che sono molto più vicine di quanto crediamo.”

Le vicissitudini di Elena mi riportano alla mente un pensiero di Madre Teresa di Calcutta, da poco Santa, che mi sta particolarmente a cuore: “Signore, quando ho bisogno che ci si occupi di me, mandami qualcuno di cui occuparmi e quando la mia croce diventa pesante, fammi condividere la croce di un altro”. Aprire il proprio cuore, ascoltare e condividere sono parte di una pratica semplice e buona che può diventare balsamo curativo per ogni male.

Oggi Elena Cecchele racconta ai giovani e a chiunque voglia conoscere meglio questa problematica, le emozioni, le paure, le sconfitte e le vittorie che segnano il percorso di questa malattia. Quest’estate Elena ha incontrato le ragazze e i ragazzi dei campi giovani dell’Arsenale della Pace, suscitando riflessioni ed emozioni. Proprio dalla piazza del Sermig ha voluto lanciare un forte messaggio denso di speranza: “Voglio mostrare che è pos-sibile porre un punto a questo strazio e continuare. Non dico ricominciare, perché non si può e non bisogna censurare quello che si è passato: si deve ripescare sempre il buono, anche da ciò che ci è capitato di negativo, così da avere una guida per il presente, per avere un vero motivo per sorridere ogni giorno”.

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