Puntiamo sul disarmo

Pubblicato il 28-04-2018

di Redazione Sermig

a cura della redazione unidialogoLa testimonianza del giornalista Nello Scavo e dell’ex produttore di mine Vito Alfi eri Fontana all'Università del Dialogo del Sermig.

ARMI E INTERESSI
Nella mia esperienza ho notato sempre che vi è una sovrapposizione perfetta nella rotta che riguarda il traffico di armi, il traffico di droga e il traffico di esseri umani. I personaggi coinvolti, i mediatori, quelli legali e quelli illegali sono sempre le medesime persone. Questo vale per i Balcani, vale per le rotte orientali, vale per l’Africa, anche per il Sud America. Cosa vuol dire? Vuol dir che c’è una parte ristretta di mondo che conosce perfettamente quale business e quale tipo di interesse si può trarre dai conflitti, dalle situazioni di instabilità e c’è un’altra parte di mondo a cui invece questi meccanismi serve nasconderli. I numeri ci dicono una cosa che è straordinariamente drammatica: il traffico internazionale di armi o meglio la produzione ed esportazione mondiale di armi ne- gli ultimi 5/6 anni, è cresciuto a livello mondiale di oltre il 600%. Ha ragione papa Francesco quando parla di guerra mondiale a pezzi: non si intendono solo pezzi di mondo, ma anche pezzi di interesse. Perché sono guerre che si combattono attraverso la grande finanza, attraverso forme di conflitto non convenzionale.

LA CULTURA DELLE ARMI
Un’operazione mediatica molto comune è far credere che vi è sempre un pericolo, che dobbiamo difenderci. Come? Comprando un’arma. Questa cultura dell’arma va di pari passo con la cultura del nemico che si sta profondamente radicando. C’è qualcosa di malato nel nostro lessico. Non è un caso se nel nostro Paese è aumentato esponenzialmente il numero di armi vendute. Quello che dobbiamo fare dal mio punto di vista è cominciare a contrastare questa cultura del male aprendo gli occhi su tutto ciò che istiga la violenza e l’inimicizia. Tutto parte dalla parola. Cominciamo dal nostro linguaggio perché un linguaggio più avvertito ci permetterà in qualche modo di capire di più e meglio se qualcuno vuole spostarci in una realtà di conflitto.

EDUCARSI ALLA PACE
L’educazione alla pace non la si fa dicendo che le armi fanno male, perché chi vive le guerre lo sa benissimo. L’educazione alla pace la si fa prima di tutto coltivando il dialogo ad ogni costo. Se pensiamo alla ricomposizione di alcune crisi recenti (Cuba e Stati Uniti o la Colombia), la chiave è stata sempre la volontà di dialogare, anche contro ogni speranza in una soluzione. Perché non dobbiamo dimenticarlo: la conoscenza dell’altro è prima di tutto il bisogno che noi abbiamo di relazionarci. Questa potrebbe essere davvero la soluzione. Con molto realismo, dal momento che la pace non è semplice assenza di guerra e non è neanche un bene duraturo. Ci siamo illusi che con la fine della seconda guerra mondiale avremmo risolto i nostri problemi di ordine bellico e invece oggi ci ritroviamo a fare i conti con 250 milioni di migranti, 62 milioni di profughi. Neanche all'epoca della seconda guerra mondiale abbiamo avuto questi numeri. Di cos'altro abbiamo bisogno per renderci conto che non viviamo in pace?

La storia di Vito Alfi eri Fontana è due vite in una. La prima da produttore di mine antiuomo e anticarro, la seconda da sminatore. Vito era titolare della Tecnovar, fabbrica di armi che decise di chiudere negli anni ’90 per una crisi di coscienza. «La Tecnovar aveva 350 dipendenti divisi in due stabilimenti, uno che fabbricava gli inerti e un altro che fabbricava gli esplosivi. Produrre armi all'inizio era una cosa come un’altra. Però ad un certo punto ogni cosa è diventata pesante». Il figlio di Vito che a un certo punto dà dell’assassino a suo padre, l’incontro con il messaggio di pace di don Tonino Bello: provocazioni che lasceranno il segno. «Non dimenticherò mai l’invito di don Tonino Bello a confrontarmi con gli attivisti della campagna contro le mine antiuomo. Lui morì una settimana prima, ma seppi che chiese di far svolgere comunque quell'appuntamento.

A un certo punto un ragazzo si alzò e mi disse: “Ingegnere, lei sarà pure simpatico, ma mi vuol dire che cosa sogna? Lei sogna una bella guerra? Ma è possibile?”. Quella frase non me la sono più dimenticata, me la porto sempre dentro. Spero non mi capiti più in vita mia di sognare una guerra come mezzo per mandare avanti la vita mia e della mia famiglia.
Da lì è iniziato il mio cammino». Una strada che ha portato Vito a impegnarsi per oltre 20 anni come sminatore, soprattutto nei Balcani. «E lì ho conosciuto le vittime. Cioè gente che si rifiutava di darmi la mano nonostante sapessero che ero andato là per motivi umanitari. Avevano ragione. Non basta dire: mi dispiace.
Insomma, ad un certo punto bisogna far qualcosa, bisogna cambiare non solo a parole ma anche nei fatti. E credo di averlo fatto». Il passato oggi pesa? «Il passato non lo cancelli, – dice Vito con un sospiro – e questo è già abbastanza!».

Redazione Unidialogo
foto: Renzo Bussio

 

 

 

 

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