Dio, perché? (4/4)

Pubblicato il 10-08-2012

di don Dario Berruto

di don Dario Berruto - Il dolore alla luce di Cristo.

Pablo Picasso, TragediaAbbiamo aperto queste nostre riflessioni sul problema del dolore del mondo, del perché di questo dolore, dicendoci che non si riesce a risolvere con una logica puramente umana, e che esso si sente più acutamente nell’ambito della cultura ebraico-cristiana perché la rivelazione biblica ci presenta l’immagine di un Dio che si prende cura dell’uomo, lo ama con viscere materne, in modo appassionato. Anche ai credenti di fronte alla sofferenza, viene naturale di chiedersi “ perché?”.

Abbiamo infatti visto Giobbe, uomo integro e retto, che crede profondamente in Dio, ma è toccato altrettanto profondamente dalle disgrazie, farsi portavoce di tutti i sofferenti del mondo, urlando il suo dolore, chiedendo a Dio “perché” del male che in più forme l’ha colpito. Giobbe non sa darsi una spiegazione, come d’altronde tutti i sofferenti, né gli sono di conforto le parole dei suoi amici, che anzi inaspriscono il suo dolore: le sole argomentazioni che gli amici di Giobbe sanno produrre sono, in estrema sintesi, che è egli stesso causa del suo male, per via di non ben precisati peccati.

Abbiamo poi sentito Dio rispondere a Giobbe, o meglio interrogare Giobbe con domande in apparenza molto strane, che vogliono aiutare Giobbe a misurarsi sulla sua realtà di uomo, di uomo che non sa nulla della vita, e quindi non sa nulla neanche della sofferenza e della morte. Giobbe giunge in tal modo a capire che la sofferenza è un mistero e lo accoglie questo mistero, accettando la vita così com’è ivi compresa la sua porzione di sofferenza e di dolore.


Maria Birrico, SolitudineACCOGLIERE IL MISTERO

L’atteggiamento dell’uomo che accoglie il mistero, il mistero di Dio, della vita, della morte, del patire, non è un atteggiamento passivo, ma l’apertura alla dimensione dell’eternità, dell’infinito. Se l’uomo non si apre a questa dimensione, quale atteggiamento può avere di fronte al dolore del mondo? Vi è il rifiuto della vita in molti modi diversi, che vanno dal “lasciarsi andare” al suicidio, dimenticando che non si è soli, ma si è inseriti in un contesto familiare e sociale. Viene meno con questo rifiuto il rispetto per quella realtà di solidarietà in cui siamo immersi ovvero, con parole terra terra, per gli altri.
Vi è poi l’atteggiamento di ribellione ma, se non credi in Dio, contro chi ti ribelli? Se invece credi in Dio, perché lo fai? Vi è anche chi si aggrappa alla teoria del superamento storico della sofferenza, ossia confida che scienza e tecnica un giorno giungeranno a guarire ogni male, dimenticando in ogni caso che lo spettro della sofferenza è ben più ampio di quello della pur vasta gamma di malattie che ci affliggono. Giobbe ha invece accolto il mistero, e si è accorto di poter affermare, dopo le sofferenze provate: o Dio io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono.


Sydney, St Mary's Cathedral, Particolare del CrocifissoUN DIO DI AMORE

Uno scrittore moderno, Carlo Coccioli, ha scritto che l’uomo che ha conosciuto il dolore senza rifiutare la vita può offrirsi in silenzio all’invasione del santo. Questo succede a Giobbe, che in qualche modo giunge a “vedere” Dio.
Ma chi è questo Dio che vedono gli occhi di Giobbe, come gli occhi di tutti quelli che entrano nella sofferenza con fede e vi restano con fiducia? È forse un Dio che abbandona gli uomini a un’esistenza di sofferenza restando Egli stesso impassibile dall’alto dei cieli infiniti? Cerchiamo di gettare un fascio di luce su questo interrogativo, che ha angosciato e ancora angoscia tanti uomini, guardando all’incarnazione, passione e morte di Gesù e ascoltando le parole che dice sulla croce, servendoci di tutti e quattro i racconti lasciatici dagli evangelisti.

Leggiamo per prima cosa tre versetti di Giovanni che ci collocano immediatamente davanti al mistero di Dio che dona al mondo il Figlio: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque creda in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16), “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rm 8,32), “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10).

Parlando con un linguaggio molto umano possiamo chiederci: Dio cosa ha di più caro, di più prezioso? Suo figlio Gesù, il figlio diletto. Ebbene, Dio ci vuole così bene che ci ha dato questo Figlio come vittima di espiazione, e il figlio, Gesù, accetta di venire e di essere rifiutato, emarginato, crocifisso. Dio, storicamente, ha dato una volta per sempre il suo Figlio, ma è come se ciò continuasse ad avvenire, in Dio, sempre. Dio ci vuole così bene che adesso – e poi di nuovo domani e dopodomani – ci sta dando ciò che ha di più prezioso, suo figlio Gesù, e il figlio adesso accetta di venire e di morire per noi.

Se il metro di misura dell’amore di Dio per noi, di quel Dio che è amore (1Gv 4,16) è l’averci dato il suo amatissimo Figlio, ciò significa che questo ha comportato al Padre un sacrificio: il primo sacrificio è del Padre. Come può il Padre donare per amore il Figlio amatissimo, senza essere coinvolto personalmente lui? Può il Padre restare impassibile e imperturbabile, quando vede il Figlio tradito, rifiutato, ucciso con una morte tremenda, con la croce? Noi abbiamo ereditato dalla filosofia Greca l’idea di un Dio eternamente immobile, impassibile e imperturbabili, che non viene sfiorato e toccato da nulla. Ma è compatibile l’immagine del Dio d’amore che ci presenta la Scrittura con questa idea? Certamente no, ed allora dobbiamo porci una domanda, e chiederci: Dio soffre? Dei testi che abbiamo citato, dall’esame della Scrittura, noi troviamo l’amore del Padre descritto in modo tale da farci rispondere: sì, Dio soffre. Soffre in un modo per noi misterioso, perché l’uomo non giunge a comprendere come questa sofferenza sia conciliabile con le altre prerogative di Dio, che ci appaiono contrastanti con essa, così come l’uomo non può arrivare a comprendere il mistero della Trinità, Dio uno e trino. In un modo per noi del tutto misterioso, Dio è capace di soffrire, Dio soffre.


Henry Martin, Agonia nel GetsemaniLA SOFFERENZA ESPRESSIONE DI AMORE

Noi abbiamo un concetto della sofferenza per cui la consideriamo come qualcosa di imperfetto, e come tale la vediamo incompatibile con Dio, che non può essere imperfetto. Ma siamo proprio sicuri che la sofferenza sia solo e sempre qualcosa di imperfetto, qualcosa che si deve subire? Soffermiamoci un momento su un versetto del vangelo di Giovanni: “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Non c’è amore più grande di chi dà la vita; e se la sofferenza non fosse che il versante ultimo dell’amore? Secondo il nostro punto di vista la “croce” è il colmo della disgrazia, ma in Dio la croce è invece il colmo dell’amore, è un amore che giunge a pienezza. La prospettiva viene a cambiare radicalmente.

Fissiamo il nostro sguardo su Cristo in croce. Certo in Gesù non c’è mai stata traccia di: io penso, io so, io posso, io credo, a me piace, a me sembra che; ma ora, sulla croce, noi vediamo un uomo perfettamente coincidente, coincidente in modo esclusivo, con il suo “essere dono”. La croce è dunque dono, colmo d’amore, amore che giunge a pienezza. Gesù viene nel mondo con un segreto d’amore così grande – l’amore del Padre – e sente così forte il bisogno di regalarcelo che percorre tutte le strade, non si ferma di fronte a nulla, perché questo dono possa essere capito e recepito. Gesù ci ama a tal punto, che si fa uomo per donarci l’amore del Padre. Gesù “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e diventando simile agli uomini” (Fil 2,6-7).

Gesù si fa uomo, ed inizia la sua passione. Gesù nasce, cresce, incomincia la sua vita pubblica, entra nei bisogni umani, guarisce, fa i miracoli, libera gli indemoniati, sfama la gente, piange, condivide, si identifica con il povero. Faceva parte tutto questo della sua passione? Sì, ogni miracolo, anche il più piccolo, Gesù l’ha pagato di persona. Gesù non soltanto entra nei bisogni umani, ma entra nelle intelligenze umane: annunzia il Vangelo, parla dell’amore del Padre, vuole cambiare i suoi discepoli. Gesù parla, ma non viene compreso, viene trattato da indemoniato, da pazzo. I suoi amici più stretti non solo non lo capiscono, ma nel Getsemani dormono, fuggono, lo tradiscono.

Gesù dunque entra nei bisogni umani e nelle intelligenze umane, ma non basta: Gesù entra dentro i peccati del mondo, si carica dei nostri peccati e sale il Calvario. Marco e Matteo dicono che a mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, ma vi è prima di tutto buio nel cuore del Figlio che è diventato – per amore – peccato, ossia una realtà incompatibile con la santità di Dio, dove Dio non c’è. Per via di questo peccato, il Padre e il Figlio sembrano non più riconoscersi, ed ecco il grido “perché” già più volte ricordato: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Marco e Matteo).


Francesco Mochi, Tabernacolo con crocifissioneLA MORTE NON È l’ULTIMA PAROLA

Ma l’abbandonato non è tuttavia un disperato, come dimostrano queste altre parole di Gesù, che troviamo nei Vangeli: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Luca). “ Dopo queste parole, chinato il capo, rese lo spirito” (Giovanni). Rese lo spirito: Gesù restituisce al Padre tutto, anche lo Spirito che è l’amore che lo unisce a lui, perché a partire dal suo costato trafitto questo amore, questo amore più forte della morte, possa essere donato al mondo. Nella trafittura del costato, in questa ferita aperta in Dio entrano ormai tutte le sofferenze del mondo, tutto può avere un misterioso senso di salvezza per il mondo intero, nulla va sciupato. Ma Gesù, inchiodato sulla croce, dice anche delle altre parole, le dice al ladrone che è accanto a lui: “oggi sarai con me in paradiso” (Luca).

Tutte queste parole di fede dobbiamo averle perennemente presenti, per parteciparle ai sofferenti. Perché mi hai abbandonato: è il momento di massimo sconforto, il momento in cui non ne puoi proprio più; nelle tue mani, nel tuo amore colloco la mia vita, la mia sofferenza, il mio dolore: è il grande segno dell’abbandono, della fiducia; oggi sarai con me in paradiso: l’ultima parola diretta ad un uomo non appartiene alla morte, non appartiene alla sofferenza, al dolore, perché l’ultima parola è per l’uomo il paradiso. In queste parole non troviamo una risposta razionale al problema del dolore, ma la certezza che in Gesù trova senso tutto il patire, tutto il misterioso e scandaloso patire che è presente nella storia umana e che a volte sembra contrastare con l’esistenza di Dio.
Ma se la sofferenza è l’espressione, il colmo dell’amore, noi che ci diciamo cristiani e siamo chiamati ad amare, come primo e massimo e come secondo comandamento, possiamo forse non esserne coinvolti?


Segni eucaristiciIMITATORI DI CRISTO

Ogni volta che partecipiamo all’eucaristia sentiamo il sacerdote dire, dopo le parole della consacrazione, “fate questo in memoria di me”. Questo significa certamente, per un verso, che dobbiamo ripresentare ancora una volta al Padre l’unico sacrificio di Cristo che salva il mondo, ed è questa l’interpretazione che ci limitiamo a dare di solito a queste parole. Ma risentiamole con attenzione e ricordiamoci del comandamento di Gesù di amarci gli uni gli altri come lui ci ha amati (Gv 15,12), come lui che ha manifestato sulla croce il suo amore, proviamo ad interpretarle anche così: questo è il mio sangue versato, questo è il mio corpo dato, e fate così anche voi, fate questo (versare il sangue, dare il corpo) in memoria di me. Come io ho versato il mio sangue, come io ho dato la mia vita, così fatelo anche voi. Non abbiate paura di versare il sangue, non abbiate timore di dare la vita, ma fatelo, fatelo in mia memoria perché il mondo che vi vede mi riconosca in voi. Quando andiamo a fare la comunione, e rispondiamo amen all’annuncio “il corpo di Cristo”, questo nostro amen, significhi: O Signore, noi siamo d’accordo, siamo d’accordo a collocare nella tua croce, come colmo del nostro amore, tutte le nostre sofferenze, i nostri patimenti, perché continui ad esserci salvezza per il mondo.

Paolo ha compreso tutto questo molto bene, ha capito che se il cristiano e Gesù sono una cosa sola, come una sola cosa sono Gesù e il Padre, si possono allora dire le grandi parole dell’amore: “perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo, che è la Chiesa” (Col 1,24). E Paolo, dal carcere, dice ai cristiani di Filippi: “a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui” (Fil 1,29). Siamo qui giunti al massimo di conformità al modo di pensare di Gesù: vedere la sofferenza come dono.

Gesù non ha spiegato la sofferenza, ma l’ha vissuta, l’ha offerta, ne ha fatto motivo di salvezza per tutto il mondo, e continua a proporci questo esempio perché lo seguiamo e lo trasmettiamo al mondo, ben sapendo che l’ultima parola della passione, non è “morte” o “dolore” ma “ paradiso”, “vita eterna”.

 

Vedi anche:
Dio, perché?   [1]  [2]  [3]  [4]

da NP 1993, a cura della redazione
da incontri all’Arsenale della Pace
testi non rivisti dall’autore

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