La cura della salute

Pubblicato il 31-08-2009

di andrea


In attesa della decisione del tribunale civile di Roma sul ricorso con il quale Piergiorgio Welby chiede che sia interrotta la terapia medica alla quale è sottoposto e che sia ordinato ai medici di non ripristinare il trattamento sanitario, pubblichiamo la sintesi di una riflessione sulla cura della salute tenuta nel novembre scorso a Torino in un incontro organizzato dal Movimento per la Vita.

di Paolo Merlo

Occorre cominciare col distinguere tra cure e terapie, che indicano azioni diverse.
“Cura” può significare molte cose differenti: servizio, sollecitudine o culto; preoccupazione, affanno; o anche pratica medica. La cura è una delle modalità costitutive della relazionalità umana: indica il necessario reciproco affidarsi degli uomini come esseri indigenti, un affidarsi angoscioso perché mai definitivamente risolutivo: siamo esseri limitati, a rischio di malattia e morte. L’uomo è da sempre all’insegna della cura.
Con l’avvento della medicina scientifica cure e terapie si sono diversificate.

Le cure sono rivolte a fronteggiare le necessità assistenziali esigite dall'uomo malato: sono necessità personali e “calde”; le terapie, che hanno un connotato sanitario, sono volte a fronteggiare le malattie: sono inevitabilmente impersonali e “fredde”.
Le cure, non potendo che essere dirette e calibrate individualmente, hanno sempre mantenuto duttilità e flessibilità. Le terapie hanno sempre più acquistato valenze protocollari, standardizzate, radicate statisticamente, e si sono sempre più irrigidite epistemiologicamente.
Per capire meglio: il medico può aiutare il malato terapeuticamente e abbandonarlo per quanto concerne le esigenze della cura...

Dobbiamo quindi esaminare separatamente il diritto di cura e il diritto di terapia e il dovere di cura e il dovere di terapia.
Quanto al diritto: Molte malattie non conoscono terapie efficaci; ma tutti i malati, assolutamente tutti, possono essere sempre curati. In tal senso “il diritto alla salute, come diritto umano fondamen-tale, non può essere inteso come un assoluto diritto alla terapia, ma certamente come un assoluto diritto alla cura” (F. D’Agostino).
Quanto al dovere: quello di cura è più ampio e vincolante, mentre è da precisare quello di terapia.

Esaminiamo un caso, presentato da P. Cattorini in un suo libro.
Un sacerdote soffre di grave nefropatia e deve essere sottoposto a dialisi due volte la settimana in regime di “day hospital”. La situazione peggiora e gli viene proposto un ricovero in ospedale per un periodo di tempo indefinito, aumentando a quattro le sedute di dialisi. Questa terapia - gli dicono i medici – potrebbe prolungare la sua vita di un anno, con una probabilità del 60 per cento. Altrimenti la sua fine sarà molto più prossima: due o tre mesi.
Il sacerdote rifiuta il ricovero adducendo come motivo la sua preferenza per un tipo di vita più raccolto e meno disturbato: a casa propria, egli dice, attorniato dai suoi fedeli più cari, egli potrà prepararsi con più serenità e dignità religiosa alla fine.

In questo caso ci sono due finalità a confronto:
- I medici formulano ipotesi terapeutiche volte a prolungare la vita
- Il sacerdote, nella consapevolezza di un evento ormai inevitabile, opta per un morire dignitoso, in un ambiente raccolto e meno disturbato, in relazione con i fedeli più cari.
Non è una scelta suicida: ci sono diversi valori in gioco; il sacerdote, consapevole dell’approssi-marsi della morte, rifiuta un trattamento terapeutico che gli prolungherebbe la vita di alcuni mesi ed opta per un congedo dalla vita reso più dignitoso dall’ambiente e dalle cure.
Non basta guardare dall’esterno, come fanno gli utilitaristi, che guardano il risultato, non badano alle intenzioni; invece bisogna entrare dentro alle azioni, alle motivazioni.

Come valutare questa scelta?
La prospettiva giuridica
La Costituzione proibisce ogni intervento sanitario di carattere coattivo a carico di soggetti competenti, stabilendo che possa essere superato solo tramite una riserva di legge e per ragioni di interesse sanitario collettivo. Nessuno può essere obbligato a subire un trattamento sanitario, salvo nei casi previsti dalla legge (TSO).
La prospettiva etica
Quale morire è degno dell’uomo? Ci sono due posizioni a confronto:
1) l’uomo è considerato “amministratore” della vita;
2) l’uomo è considerato “padrone” della vita.
Chi si trova nella posizione 1), collegata ad una prospettiva religiosa, che riconosce la dipendenza da un Dio creatore, rispetta la vita, come dono ricevuto.
Chi si trova invece nella posizione 2), che nega o trascura l’esistenza di Dio o almeno la relazione con Lui, vuole decidere da sé come-dove-quando morire.

La posizione uomo-padrone ha due varianti:
- variante liberale/libertaria
- variante utilitaristica
I pensatori liberali pensano che nella morale privata (dentro le mura di casa) l’individuo sia asso-lutamente autonomo, non vincolato da valori di riferimento oggettivi,come si pensa in ambito cristiano. Lo stesso esercizio dell’autonomia individuale è morale per se stesso, indipendentemente da quanto è oggetto di scelta. Ad esempio, il suicidio: se la scelta suicida è ponderta, deve essere rispettata. Per loro è morale rifiutare non solo le terapie, ma anche le cure. L’autonomia morale è idolatrata.
L'utilitarismo ha sempre definito il bene come utile e quest'ultimo come ciò che realizza la maggior quantità di benessere per il maggior numero di individui: c’è in questo una dimensione sociale. Da questa concezione deriva il concetto di qualità della vita. Se tra ciò che dà benessere si considera anche l’autonomia, le relazioni, l’amicizia, la bellezza, allora può essere morale rifiutare le terapie. Se invece la qualità della vita è riferita alle condizioni biomediche si fanno riserve sul rifiuto delle terapie. In ogni caso è importante ciò ch’è bene per l’uomo.
Anche la posizione dell’uomo-amministratore presenta delle varianti:
A. variante “etico-normativa”
B. variante “etica della virtù”

A. Nella variante etico-normativa il da farsi viene individuato sulla base di norme morali, applicandole ai casi concreti; la norma (comandamento, regola morale) porta ai beni umani (cercare il vero e il bene, custodire la vita e la salute, disporre liberamente di sé, relazionarsi con gli altri nella giustizia, ecc.) che sono dotati di effettiva consistenza. In prospettiva si vede la Sapienza creatrice.

Occorre fare delle distinzioni per le regole morali:
- trattamenti terapeutici, cioè tutti gli interventi medici disponibili e appropriati al caso specifi-co, qualunque sia la complessità delle tecniche usate, volti a rimuovere i fattori patologici e a ristabilire la salute del paziente: qui si applica il criterio della proporzionalità.
- cure: sono quegli aiuti ordinari ai pazienti infermi - si pensi all’alimentazione e all’idratazione (anche artificiali) -, come pure la compassione e il sostegno affettivo e spirituale, dovuti ad ogni essere umano in pericolo; le cure sono da assicurare sempre.

Per i trattamenti bisogna distinguere tra mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati: è lecito non intraprendere o sospendere trattamenti che sono sproporzionati perché:
- inutili e inefficaci sotto il profilo della terapia (prolungano la vita in modo forzato e macchi-noso, e solo per breve tempo)
- comportano rischi e dolori eccessivi, rispetto alle prospettive di miglioramento (“lasciatemi morire in pace” è una scelta legittima)
- sono eccezionali e troppo onerosi per la famiglia o per la società
Queste regole, di carattere generale, fanno un po’ di chiarezza, ma restano ancora distanti dai casi concreti.

Per determinare quando il trattamento è sproporzionato taluni propongono delle formule, come:

Ben = (Qdv x Pdv x Ch) / On

dove: Ben = Benefici medici netti; Qdv = Qualità della vita; Pdv = Prolungamento di vita sperato; Ch = chance di ottenere i benefici; On = Oneri del trattamento, come disagi, sofferenze e costi.
Ma la Qdv è misurabile? Ci sono disabili contentissimi di vivere e sani che sono scontenti! Considerare il Pdv può emarginare gli anziani; i costi (On) possono assurgere a criterio determi-nante. È una formula di matrice utilitaristica, che può fornire un elemento da considerare, ma non “la” soluzione al quesito morale.

B. Nella variante etica della virtù il da farsi viene individuato sulla base della saggezza pratica, che
- ricerca il bene della persona nella sua singolarità,
- giudica sulla base degli elementi raccolti
- e prescrive il da farsi per quel paziente.
Per prima cosa ci si chiede: il paziente chi è? Il suo modo di pensare, la sua storia, le sue abitudini, il suo modo di rapportarsi e di reagire, le sue sofferenze, le sue fragilità, anche psichiche….
Che cosa sceglie o rifiuta? quali terapie? quali cure? A che cosa tende? che cosa gli sta a cuore?
Dove: in casa? all’ospedale? in un hospice? Quando? subito? tra qualche giorno? quando avrà provveduto a taluni doveri? Quali saranno le conseguenze delle scelte? Sullo stato complessivo di salute, sulle relazioni interpersonali, sulla situazione economica....
In situazioni analoghe si può arrivare a soluzioni diverse, ma tutte moralmente accettabili.

P. Cattorini conclude:
A nostro avviso, due malati, che si trovino nella stessa situazione patologica in cui la fine si annuncia come imminente, possono optare con piena legittimità morale per condotte diametralmente opposte: uno può chiedere, in coerenza con la sua vita, i rimedi più invasivi, rischiosi, sperimentali, che gli consentono di sperare in qualche minima chance di recupero.
L'altro può accontentarsi del tempo di vita residuo, vivendolo a casa sua e nel modo più libero da fattori medicalizzanti e dunque impegnandolo nelle cose che gli paiono più importanti (il rapporto con familiari, amici, ecc.).
Ciò che fa la differenza è il diverso senso che i due malati attribuiscono alle alternative ipotesi di cura loro proposte.


da una lezione di Paolo Merlo
Docente di Teologia Morale alla Pontificia Università Salesiana di Torino
6 novembre 2006

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