Vogliamo poter convivere

Pubblicato il 29-06-2014

di Redazione Sermig

Le banlieu francesi, i ghetti di tante città europee… una integrazione formale e non sostanziale come possono aiutare le persone a vivere e a convivere?

Nell’ultimo mese, le numerose perdite di vite umane causate dagli incendi nelle case di immigrati a Parigi e a Berlino ci hanno ricordato che gli immigrati non sono un problema ma che - parafrasando un concetto che dom Luciano Mendes ci aveva aiutato a maturare relativamente ai bambini di strada - possono essere la soluzione dei nostri problemi, perché ci sradicano dalla cultura dell’egoismo, del razzismo, della non volontà di accoglienza, della chiusura alla mondialità, di un umanesimo che ama l’umanità ma disprezza l’uomo.

Come Sermig, già dagli inizi della nostra esperienza per accogliere l’uomo che si sentiva senza radici nella nostra società, abbiamo puntato sulla reciprocità dei rapporti per poter contribuire a costruire un pezzetto di pace. Dieci anni fa avevamo redatto un documento i cui spunti ci pare siano ancora oggi stimolanti (vedi sotto).

VOGLIAMO POTER CONVIVERE

I problemi della nostra città sono i nostri.

Oggi, la gente di Torino, e di molte altre città d’Italia, è sconcertata, ha paura. Sta constatando che molte case, molte strade, sono invivibili: luoghi di violenza, di spaccio e di uso sfacciato della droga davanti a tutti, di scippi, di ruberie… Noi condividiamo molte di queste paure. E la gente si sente abbandonata dalle Istituzioni, salvo casi eccezionali, sovente dettati da demagogia.

Noi, un popolo di emigranti, corriamo il rischio gravissimo di diventare un popolo chiuso e di apparire razzista. Perché, senza preparazione, abbiamo subito una “invasione”.

Non vogliamo accettare ghetti, luoghi di miseria e violenza, perché, come testimonia la storia in ogni parte del mondo, non hanno mai contribuito a costruire una società in pace. Non vogliamo accettare nuovi schiavi costretti per paura ad accettare lavori infami, abitazioni indegne. Non vogliamo accettare nuove schiave costrette a vendere il proprio corpo per comprare la libertà.

Vogliamo accogliere con serietà e con metodo, promuovendo un progetto concreto di convivenza. Ma è anche necessario che le Istituzioni svolgano responsabilmente il loro ruolo.

Vogliamo poter convivere con persone che giungono dal Maghreb, dall’Africa nera, dai Paesi dell’Est, da mondi diversi. Conosciamo, per esperienza diretta, le realtà da cui provengono e i motivi che li hanno portato nel nostro Paese: spesso non hanno potuto conoscere la democrazia, hanno vissuto in una tradizione religiosa o ideologica ritenuta opprimente, hanno subito povertà materiale e culturale.

 È evidente la difficoltà di comunicare, di integrarsi nella realtà tanto diversa che trovano, fondata su valori conquistati, come la democrazia e la tolleranza, e anche su un benessere purtroppo degenerato nel consumismo.

Le reali diversità possono creare disorientamento e contrasto o diventare opportunità di confronto e di arricchimento. Ma attraverso un dialogo che va aiutato.
L’incontro tra diverse culture, religioni, razze è positivo quando affrontato con il desiderio di reciprocità e con il concetto di mondialità nel cuore.

L’accoglienza non deve tradursi in semplice assistenza paternalistica. Occorre insistere sulla reciprocità di diritti e doveri. Deve essere richiesto loro, con fermezza, di conoscere e rispettare la società che li accoglie, nella sua cultura, nelle sue leggi.
Deve essere favorita la presenza regolare di chi dimostra buona volontà mediante l’inserimento nelle opportunità di lavoro che esistono, l’accesso ad una casa e l’assistenza sanitaria, come altrettanto va applicata la legge nei riguardi di chi delinque.

Non c’è solidarietà vera senza giustizia vera, non c’è giustizia vera senza comprensione, che chiama in causa la responsabilità di ciascuno.

Noi, popolo che nella sua storia ha conosciuto i drammi dell’emigrazione, abbiamo la capacità di innescare un vero processo di pace. È un cammino impegnativo: prima di tutto dobbiamo superare la fase della rabbia e dell’emergenza, per poter entrare in una dimensione in cui possa emergere il positivo, in cui sempre più persone siano disponibili a farsi carico di una fetta di problemi, senza aspettare interventi “miracolistici”.

Occorre che educhiamo e ci educhiamo sempre più alla responsabilità, al saper gestire la libertà che abbiamo, a rispettare gli altri. Lo sforzo educativo richiede tempi lunghi, fatica, fermezza, determinazione, ma è una delle poche strade a disposizione di ogni cittadino che consenta di costruire un futuro di convivenza civile.

Ernesto Olivero
Documento Sermig, 11 novembre 1995




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