Che mi metto?

Pubblicato il 30-01-2013

di Flaminia Morandi

Occuparsi del proprio vestito non è un optional frivolo, è una cosa seria, che condensa il messaggio comunicativo di una persona. Il problema dell’abito è esistito fin dagli inizi anche per i religiosi e i monaci, anzi per loro in modo particolare: bisognava mescolarsi alla pasta, cioè non usare un abbigliamento diverso da quello del mondo, ma essere lievito, cioè rendere evidente al primo sguardo una scelta di vita opposta al mondo.

Nei deserti d’Oriente c’era assoluta libertà e qualcuno si copriva solo con i propri capelli. Ma dal IV secolo gli anacoreti (chi vive in solitudine in un luogo desertico per raggiungere l’ascesi - n.d.r.) scelsero la melota, una sorta di zimarra di pelle di capra stretta in vita da una cintura di cuoio:Monaco Francescano assomigliava al vestito di Elia e di Giovanni Battista, precursori dei monaci cristiani, simboleggiava il carattere profetico del monachesimo e la sua non appartenenza alla gerarchia della chiesa, la condizione di peccato dell’uomo e la necessità della penitenza.

I monaci d’Egitto preferivano una tunica di lino senza maniche: perché le maniche, dice Doroteo di Gaza, sono il segno delle mani che afferrano per possedere; perché le mani nude, dice Evagrio, significano una vita senza ipocrisia. Il cappuccio, come la tunica, veniva portato giorno e notte perché non c’è un momento in cui il monaco è “in vacanza” da Dio; siccome era tipico dell’abbigliamento infantile, significava l’innocenza e la semplicità, e per Evagrio la grazia di Dio, la resurrezione e la vita eterna. Lo scapolare largo sulle spalle e pendente davanti e dietro assumeva la figura di una croce: segno, secondo Doroteo, della sequela di Cristo. La pezzuola o il mantello corto indicava la povertà e l’umiltà; la cintura di pelle ai fianchi la purezza e la prontezza al servizio di Cristo. I sandali sostituivano le scarpe perché, dice Cassiano, erano state proibite dal Signore ai suoi discepoli. Il bastone, lignum vitae, ricordava la passione del Signore, la sua imitazione, la difesa contro le tentazioni: chi s’appoggia a un bastone, dice Evagrio, indica di appoggiarsi a Cristo.

Ai tempi di san Benedetto tunica, cocolla, scapolare erano anche l’abito dei contadini, dei poveri e degli schiavi, cioè delle classi inferiori della società. Il monaco non si distingueva da loro, era come loro. Durante la cerimonia della professione, si toglieva l’abito con cui era entrato e riceveva l’abito monastico per indicare che nulla era più suo, nemmeno il vestito che indossava.

Lo stesso colore dell’abito, bianco o nero, aveva la sua importanza. Bianco: la purezza dell’anima, l’innocenza dei costumi, il ricordo della veste battesimale. Nero: il colore indossato dai filosofi antichi, la penitenza, l’umiltà. Ma alla fine del medioevo il nero divenne di moda e gli abiti religiosi sconfinarono nell’uso delle tinte. Con il tempo le cose si complicarono ulteriormente: arrivarono la berretta triangolare (la Trinità) o quadrata (la croce), la talare, la mozzetta, magari di pelliccia, maniche fino a terra, abiti diversi a seconda dei periodi dell’anno liturgico o delle ore della giornata (abito da coro, da lavoro, da passeggio) e poi stemmi, medaglie, ricami, cordoni, strascichi, cappelli, bottoni, guarnizioni, l’uso di stoffe preziose e della seta. A volte si arrivava, per vanità, a indossare il vestito di un altro istituto. Solo il collarino, sopravvissuto nell’abbigliamento dei preti, era nato in tempo di Riforma da un uso pratico e igienico: Missionarie della Caritàraccogliere il sudore che altrimenti si sarebbe impastato con l’abito, che di certo non veniva cambiato spesso.

Ci voleva il Vaticano II per mettere a posto le cose: “L’abito religioso, come segno di consacrazione, sia semplice e modesto, povero e decente nel contempo, corrispondente alle esigenze della salute e adeguato alle circostanze di tempo e di luogo nonché alle necessità dell’apostolato. L’abito, sia maschile che femminile, non conforme a queste norme, deve essere cambiato”. In certi casi, anche abbandonato del tutto, aggiunge Paolo VI.

L’unico vero abito del monaco è il volto. Un volto può essere sfigurato, oscuro, indurito, senza mistero. Ma può essere un’apertura di trascendenza, uno spazio di trasparenza e di bellezza, uno spiraglio di saggezza, un volto aureolato in cui si scopre un riflesso dell’immagine di Dio. In Gesù, Dio si è fatto volto. In un monaco, Gesù dovrebbe farsi volto. La materia diventa spirituale, la carne diventa divina. Lo sconosciuto dell’Evangelo di Matteo viene buttato fuori dalla sala del banchetto perché non ha l’abito giusto: non l’abito di circostanza del mondo, ma l’abito di luce della lode e della gratitudine a Dio, l’abito di un volto trasfigurato e risorto.

Flaminia Morandi
NP agosto/settembre 2005

 

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