Meglio insieme

Pubblicato il 24-01-2013

di Flaminia Morandi

 Tutti sono responsabili di tutti e la parola per esprimerlo è Sobornost, l’unità nella pluralità. Per tradizione i russi hanno sempre avuto un forte senso della comunità; forse – è stato scritto – questo forte senso comunitario riflesso dell’ortodossia è uno dei motivi per cui il comunismo ha attecchito in Russia, nonostante Marx non pensasse affatto ai russi nell’elaborazione della sua teoria e anzi, li amasse pochissimo.

Ma questo spirito di comunità dovrebbe animare ogni gruppo umano che si dice cristiano, anche non composto da religiosi. Lo spirito cristiano è comunitario: è il cuore solo e l’anima sola dei primi cristiani descritti dagli Atti degli Apostoli, che vivevano nella concordia e nel rendimento di grazie, mettendo tutto in comune e nulla trattenendo per sé. Dopo la sparizione degli Apostoli questo spirito si era raffreddato; a rianimarlo erano subentrati i monaci che con le loro comunità cercavano di vivere secondo quel modello. Essere monaco in una comunità perciò non è un di più rispetto al sacramento del battesimo, un di più di chiamata rispetto alla chiamata universale alla santità, fatta assolutamente a tutti. La vocazione monastica non è un di più: è un ricordo e un segno. Un ricordo della comunità delle origini e insieme un segno e una speranza di amore eterno, cioè del Regno celeste e del ritorno di Cristo.

Ogni aspetto della vita comunitaria vuole esprimere questo messaggio. I tre voti: sono un segno di come non solo il monaco, ma ogni cristiano dovrebbe fare “uso” del creato.
La castità: la rinuncia a possedere l’altro. La povertà: la rinuncia a possedere le cose. L’obbedienza: la rinuncia alla volontà propria. Ma è anche il senso della rinuncia a Satana che i padrini pronunciano al posto del battezzando il giorno del suo ingresso nella vita cristiana: rinuncia ad ogni possesso, prepotenza, sopraffazione in nome della responsabilità verso ogni creatura di Dio, e l’abbandono fiducioso nelle mani del Padre celeste. Ogni cristiano, anche sposato, può essere casto nel modo di vivere la propria relazione con il proprio coniuge; è la castità, l’astensione dal possesso per sé che costruisce rapporti umani profondi, seri, trasparenti, non esclusivi e non gelosi. Un cuore che cresce nella castità cresce nell’amore; e se cresce l’amore, il cuore si dilata e diventa capace di contenere tante persone; e sono le famiglie che si aprono all’accoglienza e all’amore degli altri. La povertà è la restituzione di ciò che si ha in affidamento dal Signore, nella responsabilità attenta verso tutti; e sono tutti coloro che condividono il proprio benessere con chi non ce l’ha. L’obbedienza è l’esercizio quotidiano della crocifissione della propria volontà alla Parola di Dio, al vangelo, all’autorità, ai fratelli e alle sorelle; e sono tutti coloro che nel silenzio nascosto della vita quotidiana compiono i sacrifici di giustizia che piacciono a Dio.

Martin Buber diceva che ciò che conta è lasciare entrare Dio; e che Dio si può fare entrare solo là dove ci si trova, dove si vive realmente una vita autentica, quando instauriamo un rapporto santo con il piccolo mondo che ci è affidato, con la creazione nella quale viviamo. Vladimir Soloviev con altre parole diceva la stessa cosa: solo nelle relazioni personali si realizza la profonda esigenza morale cristiana, che altrimenti rimane un principio astratto che forse può illuminare la coscienza, ma non rigenera la vita dell’uomo. Queste relazioni, diceva, possono essere vissute pienamente solo in un ambiente circoscritto nel quale un individuo è collocato per la sua esistenza quotidiana di ogni giorno.

Solo nel luogo dove ogni giorno mi trovo faccia a faccia con l’altro, il luogo dove ogni giorno mi chiedo: chi è l’altro per me?, dice Enzo Bianchi, si rivelano alla fine le mie debolezze e viene alla luce la mia verità. Questo luogo è la comunità di persone buone e cattive, belle e brutte, cristiane e non cristiane in cui ciascuno di noi si trova a vivere. La porzione di creazione che ci è stata affidata e dalla quale andiamo quotidianamente a scuola di umiltà è la schola amorisdi cui parlava ai suoi monaci san Benedetto: la vita nella carità qui e ora, nell’attesa dell’amore pieno e realizzato nel Regno.


Flaminia Morandi
NP marzo 2004

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok