La vera libertà è vivere

Pubblicato il 10-08-2012

di Andrea Gotico

intervista a Mariapia Bonanate - Vita, malattia, stato vegetativo, eutanasia. La storia di un uomo e di una famiglia che ha deciso di accogliere e accettare. Nonostante tutto.

“Da 5 anni mio marito, in seguito ad un ictus, è in una specie di stato vegetativo chiamato sindrome di locked-in. È perfettamente lucido, ma non può più muoversi, né deglutire, né comunicare se non con il battito delle ciglia. Sono circa seicento in Italia i malati colpiti da questa sindrome che per me è la peggiore. Dopo un anno di ospedale in cui sono state tentate diverse cure, abbiamo fatto la scelta di tornare a casa”. Mariapia Bonanate, tre figli e sei nipoti, scrittrice, giornalista e condirettore del settimanale Il Nostro Tempo racconta così il dramma che da 5 anni ha coinvolto la sua famiglia. Siamo andati a trovarla per parlare con lei del fine vita e di uno spot sull’eutanasia che ha fatto discutere.

Che cosa l’ha spinta a portare a casa suo marito dall’ospedale?
Mi ha spinta l’amore. Per un periodo mi sono chiesta: lui vorrà quest’amore o invece non potrebbe essere da parte mia una prova d’amore aiutarlo a liberarsi da questa situazione di incarcerato nel proprio corpo? Un episodio ha confortato la mia scelta. Due o tre giorni dopo che eravamo arrivati a casa dall’ospedale, la nipote che allora aveva 8 anni ed era particolarmente legata al nonno, si avvicina al letto, lo guarda, lo accarezza e mi dice: “Nonna, non piangere perché il nonno c’è. Il nonno esiste, anche se non può parlare, anche se non può più giocare con noi, anche se non può più farci ridere”. Per me è stato un’illuminazione, una folgorazione. Ho capito che lì c’era una vita diversa da come era prima, ma c’era. Vengono dei momenti molto pesanti e dei momenti molto faticosi, l’usura del quotidiano. Quando mi avvicino al letto di mio marito e vedo la sua immagine così trasformata, attraverso quel silenzio e quell’immobilità alla quale lui è condannato l’intelligenza del cuore percepisce sensazioni ed emozioni che forse addirittura un tempo non c’erano.

Che cosa è per un malato una vita degna di essere vissuta?
È una vita alla quale viene data la possibilità di vivere, come se fosse una persona che ha tutte le capacità, le potenzialità, le attese, le condizioni di essere che avrebbe se stesse bene. La persona in stato vegetativo, in coma, finchè il cuore batte è una persona viva, esiste, c’è. Il fatto stesso di esserci, di essere vivo, gli dà il diritto ad avere una qualità di vita anche superiore a quella che abbiamo noi. È una vita che deve essere rispettata. Ha il diritto di essere curato e di avere tutti gli interventi e gli aiuti che permettono al suo essere di esistere in modo dignitoso, non umiliato, non emarginato, non dimenticato.

Cosa si sentirebbe di dire a chi rivendica il diritto di morire perché schiacciato da una sofferenza insopportabile che non ha una via di uscita? Una risposta verbale o dall’esterno a queste persone non è possibile darla, perché è solo la persona che ha un carico di sofferenza straziante, non più accettabile umanamente, che può interiormente decidere di chiedere o non chiedere di continuare a soffrire. Io penso che si debba far sentire a questa persona, in modo da poterla aiutare a scegliere, un infinito amore, un’infinita cura, un infinito accompagnamento, un’infinita condivisione. Spesso la sofferenza, anche la più insopportabile, diventa atroce perché viene vissuta in solitudine, con una sensazione di perdita, di rifiuto da parte degli altri. Quando queste persone soffrono tanto devi instaurare un rapporto di sensi, di carezze, di baci, di abbracci. È un rapporto di tenerezza che percepiscono come qualcosa di terapeutico. La terapia che più li può aiutare anche a decidere se continuare in un modo o nell’altro è quella dell’amore.

Che cosa può consigliare ad un giovane che cerca qualche risposta ad alcune delle proprie domande per arrivare qualche volta alla verità? Le riposte alle domande che giustamente tanti giovani si pongono arrivano dalle scelte di vita. Ci deve essere tutto un modo di vivere basato sulla condivisione con gli altri, sull’ascolto, sul confronto, sul volersi bene e sul lavorare per il bene comune. Se non c’è prima questo stare insieme, questo vivere insieme, le domande diventano degli spasmi intellettuali che ci perdono.

In Australia è stato girato uno spot sull’eutanasia. Che cosa ne pensa? Non ho visto questo spot, ma lo posso immaginare. Penso che l’individuo se ha alle spalle un’esistenza che non è stata solo una vita chiusa attorno al proprio io, alla propria personalità, se si è sentito parte di un tutto e si è sentito uomo fra gli uomini, di fronte a una decisione da prendere sulla vita, con molta umiltà dovrebbe pensare che noi viviamo in un grande mistero. Sono più le cose che noi non conosciamo di quelle che conosciamo. Quindi vivendo in questo mistero che ci circonda, di cui non abbiamo notizie, non abbiamo consapevolezze al di là di quelle che visibilmente possiamo toccare, dovremmo anche affidarci a un’attesa, a una speranza che segue il corso naturale degli eventi. Quindi, come non abbiamo deciso noi di nascere, così non decidendo noi di morire rispettiamo un ordine naturale che va in qualche modo accolto nelle sue evoluzioni. Per cui penso che uno spot sull’eutanasia sia negativo perché una scelta molto personale viene posta come generale, universale.

Ritiene che abbia più valore la libertà, in particolare la libertà di scelta, o la vita?
La vita è una cosa concreta, è fatta di sangue, di carne, di dolori, di gioie, di sofferenze. La libertà di scelta è già qualcosa di astratto. Allora più che contrapporle, viviamo con tutto noi stessi, con il nostro corpo, la nostra anima, la nostra mente, il nostro cuore. Una vera libertà di scelta può venire solo da una vita vissuta pienamente.

Che cosa ne pensa di una legge sull’eutanasia? Questa è una domanda molto complessa. Una persona finché è viva è viva, ha tutti i diritti di essere viva, e quindi una legge sull’eutanasia mi fa molta paura. C’è una tale varietà di situazioni per quanto riguarda questo problema che è difficile per una legge essere rispettosa della persona e non rischiare di condannarla a una fine che non vuole. Tanto è vero che un’indagine fatta tra i malati di locked-in ha rilevato che l’80% degli intervistati, comunicando col battito delle ciglia, preferiva continuare a vivere. Anche altre persone, con patologie come la SLA, hanno espresso questa volontà. Io penso che si debba piuttosto cercare di mettere in moto tutte le possibilità per poter interpretare la volontà della persona. In Italia si fa poco o niente per approfondire il tema del coma irreversibile o degli stati vegetativi di minima coscienza. Manca la ricerca perché non si ha la volontà di farla, perché non ci si rende conto di come queste situazioni così drammatiche abbiano un significato profondo. Gli anelli deboli e fragili della società possono diventare delle sentinelle del nostro vivere in modo essenziale, ci aiutano a ritrovare noi stessi. Una legge che astrattamente decide di situazioni che sono una diversa dall’altra, una più complessa dell’altra non sopporta tutto questo. Temo che una legge sull’eutanasia possa essere facilmente strumentalizzata e usata anche per affrettare la morte di persone che non hanno nessuna voglia di morire, ma vengono considerate dei vuoti a perdere.

a cura di Erica Battaglio, Chiara Bruseghin, Mattia Cignolo, Elisabetta Lerda, Roberto Lerda, Benedetta Perna

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