Istambul c'è

Pubblicato il 04-02-2013

di Michelangelo Dotta

di Michelangelo Dotta - Dallo spettacolare roof garden del Marmara Pera Hotel di Istanbul si gode un tramonto sul Corno d’oro di particolare suggestione; ma sulla terrazza balconata di cristallo al sedicesimo piano il valore aggiunto all’appagamento degli occhi è il particolare sapore dei piatti cucinati da Mehmet Gurs, chef stellato di Mikla, uno dei paradisi del gusto che domina Beyoglu, quartiere trend della capitale.

Dall’ultima volta che sono stato a Istanbul per lavoro, appena una manciata di anni fa, la città è cresciuta di quasi 5 milioni di abitanti per raggiungere ad oggi la cifra record di quasi 21 milioni, la più popolosa megalopoli europea con un piede ben piazzato sulla sponda asiatica, porta e realtà in costante sviluppo, sbocco di mercato e possibile traino di un occidente stanco e invecchiato che non sa più guardare e investire sul futuro.

Mentre il fiume d’oro che scorre sotto di noi lascia immaginare paesaggi da favola, un biplano da acrobazia inizia la sua esibizione sulla città inanellando spirali di fumo bianco, ma non si accontenta di un passaggio furtivo quanto inaspettato; avanti e indietro su quel tappeto scintillante tesse la sua trama impalpabile e leggera, sottile filigrana ad impreziosire il tramonto che si stempera nelle tenebre. In pochi attimi la notte prende il sopravvento e lo scintillio sterminato delle luci che si riflettono sull’acqua oscillando, rivela l’immensità di questo luogo magico, punteggiato e dominato dai minareti vestiti a festa per il ramadan iniziato da pochi giorni. Sull’enorme spianata di Sultanahmet, metà piazza, metà giardino, l’incessante formicolio quotidiano di persone e di mezzi colmi di turisti, con l’accendersi delle prime luci della sera muta volto e prospettiva; come in un cambio di scena a vista la frenesia anonima del giorno si trasforma in una lenta riappropriazione degli spazi da parte di intere famiglie di fede musulmana che, in silenzio, preparano la cerimonia del cibo comunitario dopo il lungo e faticoso digiuno diurno. Alcune telecamere occhieggiano curiose in quella distesa di uomini, donne, bambini e tappeti imbanditi, simbolo di una fede che si manifesta ancora in maniera evidente nell’adesione rituale di migliaia di persone in attesa del canto del muezzin.
Poi, all’ora prestabilita, comincia la cena, e le fragranze dei cibi e delle spezie si mescolano alle voci della festa che ha inizio.

Questo mondo che ti avvolge ha il sapore della genuinità, il sapore antico di meccanismi semplici di rituali condivisi, il fascino di una cultura e di una tradizione che, pur modernizzandosi, non ha sostituito la piazza delle persone con la solitudine dei tablet e dei telefonini. Tra Santa Sofia e la Moschea Blu una brezza leggera spazza via l’afa e le fatiche della giornata, il rito del cibo si è consumato e ora la gente si attarda nella notte tra venditori di karkadè, bibite, acqua, dolciumi, angurie e zucchero filato.

Alle prime luci dell’alba le ombre dei minareti si disegnano sulla grande piazza deserta che si prepara al nuovo giorno: in terra non una bottiglietta, un mozzicone, un tovagliolo di carta, ma nascosti e discreti zampilli d’acqua che spandono goccioline lucenti sull’erba.
La magica e misteriosa porta d’oriente ha molte più cose in comune con Berlino che con Aladino e i tappeti volanti e, tornando a casa, sbirciando tra le baracche di lamiera e cartone che costeggiano la super strada che da Caselle conduce in città, hai la netta sensazione di esserti consacrato ad un mondo che ha smarrito i punti di riferimento che illuminano la strada del futuro.

Monitor - Rubrica di Nuovo Progetto

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