Patto delle catacombe

Pubblicato il 12-03-2013

di Corrado Avagnina

di Corrado Avagnina - Oggi fatichiamo un po’ tutti a mobilitare attenzione ed a risvegliare coscienze sui grandi temi della vita, della fede, del senso, del presente, del futuro, dell’oltre… Anche se giungono, d’improvviso, richiami impensati, come la rinuncia di Benedetto XVI, che ha spiazzato più d’uno. In un mondo in cui quasi nessuno rinuncia a nulla, ecco che Joseph Ratzigner, sentendosi stanco, passa il testimone, lasciando una responsabilità troppo pesante per le sue forze, ma anche ridimensionando e spazzando via logiche che talora sembrano infiltrarsi pure nella Chiesa, con l’ansia di stare in alto.

Su quest’altra lunghezza d’onda si colloca la ripresa in mano del Concilio, dopo 50 anni, scommettendo su un evento che per molti è in gran parte da scoprire o riscoprire. Chi, mezzo secolo fa, era ragazzino oggi ha i capelli grigi (o non li ha più) con tante esperienze disegnate nell’animo. Di mezzo ci sono le generazioni che sono venute dopo il Concilio vissuto nel suo farsi, dentro quei favolosi anni ’60. E sono appunto generazioni che devono forse ricomprendere soprattutto lo spirito del Vaticano II, nei cambiamenti che innescò pur nella continuità del cammino cristiano nel tempo.

Un amico che cinquant’anni fa non era ancora diciottenne e che da allora ha sempre coltivato, da sindacalista prima e da pensionato attivo sulle frontiere degli ultimi adesso, un cristianesimo conciliare con fedeltà ma anche con grinta, mi ha inviato il sogno contenuto nel Patto delle catacombe* firmato il 16 novembre 1965 da un gruppo di padri conciliari soprattutto del terzo mondo. Tra l’altro si proponevano: “Vivere come vive la gente comune quanto ad abitazione, alimentazione e mezzi di locomozione; rinunciare ad abiti ricchi e sgargianti e a insegne non evangeliche; destinare a opere sociali o caritative ricchezze e beni personali; rifiutare titoli che denotano grandezza e potere (eminenza, eccellenza, monsignore…); rifiutare privilegi o amicizie con i ricchi e i potenti di turno; valorizzare i carismi dei fedeli nell’ambito della partecipazione al culto, all’apostolato e all’azione sociale; mettersi a totale servizio dei gruppi economicamente deboli e poco sviluppati, cercando di trasformare le opere di beneficienza in opere fondate sulla carità e sulla giustizia; contribuire ad affermare la giustizia, l’uguaglianza e la promozione umana di tutti i cittadini; declinare la collegialità episcopale anche in forme di presa in carico delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale; evitare che i poveri siano sempre più poveri e che i ricchi siano sempre più ricchi; fare in modo che il ministero del vescovo sia un vero ed accogliente servizio che si avvale di collaboratori che siano più animatori secondo il vangelo che capi secondo il mondo”.

Bene – aggiungeva nell’augurio questo amico – i tempi sono maturi, però, purché non ci si riduca, da cristiani, a criticare la Chiesa che si vede nei tratti che alcuni descrivono (a torto od a ragione). È l’ora che ognuno si metta in gioco, da battezzato, tentando di cambiare marcia in prima persona ed assumendo lo sguardo del povero (secondo la beatitudine evangelica).


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Il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari hanno celebrato una Eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma, chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù. Dopoquesta celebrazione, hanno firmato il “Patto delle Catacombe”. Il documento è una sfida ai “fratelli nell’Episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una Chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito il papa Giovanni XXIII.I firmatari – fra di essi, molti brasiliani e latinoamericani, poiché molti più tardi aderirono al patto – si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Il testo ha avuto una forte influenza sulla Teologia della Liberazione, che sarebbe sorta negli anni seguenti. Uno dei firmatari e propositori del Patto fu dom Helder Câmara (foto).

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