Autolesionismo

Pubblicato il 02-07-2015

di Gabriella Delpero

di Gabriella Delpero - Alcuni giorni fa la mamma di Federica, una ragazzina di 15 anni che frequenta il primo anno delle superiori, mi chiede un colloquio urgente. Si presenta molto agitata ed in ansia, mi accenna subito ad un grave problema che è all’improvviso “piovuto loro sulla testa” in un periodo tranquillo e in un momento in cui la figlia sembrava serena e finalmente contenta della nuova esperienza scolastica. Una delle insegnanti ha infatti contattato la signora per comunicarle di aver sorpreso Federica mentre si procurava dei tagli su un polso con la lametta del temperino. Interrogata sul perché di tale comportamento, Federica avrebbe detto di sapere che è ciò che fanno molti ragazzi quando si sentono particolarmente tristi e arrabbiati: il dolore fisico avvertito in quel momento aiuterebbe infatti a non percepire la sofferenza interiore.

Chiodo scaccia chiodo, insomma. L’insegnante, presa dal panico, ha promesso a Federica di non dire nulla ai genitori in cambio dell’assicurazione di non ripetere mai più simili gesti. La mamma scoppia a piangere, chiedendosi cosa mai possa tormentare tanto sua figlia e come sia possibile che in famiglia nessuno si sia mai accorto di niente. Confessa di sentirsi una madre fallita e si domanda come fare ad affrontare la situazione, dal momento che adesso non può parlarne direttamente con Federica per non tradire l’insegnante. Ma a parte questo, ammette che non saprebbe comunque da dove cominciare. Ella stessa si sente infatti troppo ferita e tradita da Federica, alla quale “non viene neppure in mente di chiedere aiuto a lei, che è sempre stata al suo fianco in ogni minima difficoltà” e ha fatto di tutto per dimostrarle affetto e comprensione.

Ultimamente le segnalazioni di questi gesti di autolesionismo da parte di ragazze pre-adolescenti o adolescenti stanno aumentando. Anzi, c’è già chi sostiene che si tratti di una vera e proprie epidemia, sostenuta da un meccanismo di autosuggestione collettiva e favorita dall’effetto moltiplicatore della rete. Per molti la rete è infatti diventata una seconda vita, dove regole diverse fanno sembrare normali comportamenti altrove inaccettabili. Il fenomeno è certamente preoccupante e desta sconcerto in ogni adulto, ponendo interrogativi di non poco conto. Perché mai le nostre ragazze dovrebbero sentire la necessità di auto-infliggersi e il desiderio di assaporare il dolore fisico? Che significato dare a questo impulso? Esprime più aggressività o più paura? È una fuga o una provocazione? Una richiesta di aiuto o un’esibizione di sfida? E poi qual è il metro per misurare l’intensità della sofferenza interiore, decidere della sua ineluttabilità e indicare come unica via d’uscita l’infliggersi un dolore fisico acuto?

Forse dovremmo tornare ad interrogarci con coraggio sull’origine, il senso e il significato che attribuiamo oggi alla sofferenza. Sembra che sia passato e passi ai nostri giovani soltanto più il messaggio che la sofferenza – qualsiasi tipo di sofferenza – è per definizione sempre intollerabile, ingiusta e assurda. È qualcosa da scrollarsi di dosso il più velocemente possibile, qualcosa di estraneo, di distruttivo, di velenoso. È una maledizione e non se ne può parlare: induce al silenzio del mutismo, porta all’isolamento dal mondo esterno e a volte anche al rifiuto di sé stessi. Ma nella vita reale non è così: di fatto nel bene ci può essere il male e nel male ci può essere il bene. E ciò che fa vivere è il legame.

Un maestro zen aveva appena finito di costruire il suo vaso più bello, quando un allievo maldestro vi inciampa riducendolo in mille pezzi. Il giorno dopo l’allievo torna dal maestro e vede che il vaso è stato pazientemente ricomposto e che tutti i cocci sono stati uniti con una colla intrisa d’oro. Il vaso è molto più bello di prima.

Psyche - Rubrica di Nuovo Progetto

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