Il dialogo della vita

Pubblicato il 14-05-2013

di Jean Benjamin Sleiman

di Jean Benjamin Sleiman - Speranza da vivere e da proclamare, senza sconti. La testimonianza dell’arcivescovo latino di Baghdad.

Viviamo tempi durissimi, ma non possiamo rinunciare alla speranza. Parlare di speranza in Iraq significa crescere nella pazienza. La vita è difficile per tutti. Noi cristiani condividiamo le sofferenze del popolo, ma per certi versi paghiamo un prezzo maggiore. Per tanti, emigrare sembra la soluzione ad ogni problema. Non tutti sono in grado di resistere. È la condanna di sempre in molte società arabe: devi vivere nascosto. Partecipare, servire, amare, ma non apparire. Quando questo avviene, cominciano i problemi.

Per prima cosa, l’incomprensione. Sia chiaro: è lecito non capire o condividere la fede di un altro, ma quando questo atteggiamento si trasforma in giudizio, le cose diventano molto difficili. Non si può generalizzare, anche in Iraq ci sono esempi e isole felici, ma in generale la nostra fede non è compresa, a cominciare dai suoi contenuti. La persecuzione esiste, ma direi che è molto più forte la pressione morale e psicologica, che schiaccia le minoranze. Se vivi in un quartiere a maggioranza sciita, per esempio, devi agire di conseguenza: le donne devono vestirsi come le donne musulmane e gli uomini radersi alla stessa maniera. Chi non lo fa, è mal visto. Questa pressione psicologica è abbastanza diffusa.

Certe questioni non sono state ancora affrontate. Una su tutte: perché i cristiani scappano dall’Iraq e da tutto il Medio Oriente? Perché c’è instabilità politica, dice qualcuno. Vero. Altri chiamano in causa i problemi economici. Veri anche quelli. Ma se si guarda bene la realtà, si scopre che a scappare sono intere famiglie, non un componente che non riesce a trovare lavoro. È il dramma di uomini e donne ben radicati nella loro patria che a un certo punto dicono: in questo Paese non ci riconosciamo più. La paura più grande è quella di ritrovarsi in una repubblica islamica, senza diritti, senza garanzie.

È per questo che il dialogo non è e non sarà facile. Ma non importa. Noi abbiamo il dovere di proclamarlo, anche se servono tempo e un cambiamento culturale. Quando si dialoga, dobbiamo avere il coraggio di mettere tutto sul piatto, anche la paura. Qualcuno a volte in Occidente dice che i cristiani non devono abbandonare la loro terra. Va bene, dico io, ma almeno aiutateci a rimanere. Come si fa a difenderci a parole e poi tollerare che nella costituzione irachena vi sia un articolo che considera nulla ogni legge contraria alla Sharia? Impossibile.

Al di là di tutto, mi conforta vedere che oltre la politica, le tensioni, la fatica, esistono piccole fiammelle di dialogo della vita. Nella quotidianità, le persone sanno riconoscersi e dimenticare anche le divisioni. Se una mamma musulmana vede per strada un bambino cristiano solo, non esiterà ad avvicinarlo: lo aiuterà a trovare i genitori, lo consolerà. E questa delicatezza è reciproca.

Sì, il dialogo della vita è davvero la nostra speranza.

Testo tratto dagli atti dell’Università del Dialogo


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