Senza barriere

Pubblicato il 26-04-2016

di Chiara Genisio

di Chiara Genisio - All’inizio era solo un gruppo di amici che condivideva le idee di Giulia di Barolo sul carcere, ora dopo oltre dieci anni si sono strutturati nella onlus Associazione Carlo Tancredi e Giulia di Barolo. Il loro campo di azione principale è la casa circondariale di Torino Lorusso e Cotugno in particolare l’ala dove ha sede il polo universitario, nel cuore hanno il desiderio di proseguire sulle orme di due donne dell’Ottocento, Giulia di Barolo e Elisabeth Fry, impegnate in prima persona nel ridonare dignità alle persone incarcerate. Alla marchesa Giulia (è in corso il processo di beatificazione) si deve la riforma delle carceri femminili torinesi, all’epoca tra le peggiori in Europa. Sosteneva che la detenzione non doveva solo punire, ma anche redimere, rieducare, ridare dignità alla persona e aiutarla a reinserirsi nella società. Con il marito Tancredi investì molto delle loro risorse finanziarie per i più poveri, in particolare Giulia si dedicò a migliorare le condizioni in cui vivevano le donne in carcere, si occupò in prima persona della loro istruzione, introdusse la figura del cappellano e individuò nel lavoro il mezzo indispensabile per un autentico recupero.

Da pochi mesi l’associazione è presieduta da Silvia Orsi, traduttrice e operatrice culturale, era il 2006 quando su invito di un amico entrò in contatto con il mondo del carcere. “Da allora con altri amici – racconta – ho continuato ad incontrare i detenuti del Polo, anno dopo anno, abbiamo chiesto a personaggi conosciuti, scrittori, politici, giornalisti, imprenditori, artisti di venire a raccontare la loro storia, la loro vita, le loro sofferenze, volevamo offrire uno spunto di riflessione, delle testimonianze sul fatto che si può ricominciare”. Un’esperienza arricchente per chi vive dentro la prigione, ma anche per chi incontra i detenuti dal vivo per la prima volta. “Le persone che accompagniamo in carcere – riferisce Orsi – spesso uscendo ci guardano stupiti e ci confessano che se li erano immaginati diversi i carcerati. A me viene spontaneo domandare: perché, lei ha in mente una faccia da delinquente?”.

Giorno dopo giorno, incontro dopo incontro tra il gruppo di Silvia Orsi e alcuni dei detenuti è cresciuta e si è rafforzata un’amicizia proseguita nel periodo di regime in semi libertà, in quello dell’affidamento ai servizi sociali fino a pena conclusa. “Abbiamo – è ancora Orsi a parlare – cercato di consolidare un rapporto di fiducia e di rispetto reciproco”. E hanno fatto centro. La conferma la può offrire Roberto. Nel 1996 è stato condannato a 24 ani di carcere per narcotraffico internazionale, un vissuto pesante con cui fare i conti. Di carcere ne ha cambiati tanti prima di approdare a Torino per frequentare il polo universitario, da Milano a Vicenza, Como, Alessandria, Viterbo. Proprio in questa ultima prigione incontra padre Cristoforo, un francescano, che apre una breccia nel suo cuore riaccende una scintilla verso Dio. Lo coinvolge in piccole azioni, come la preparazione del presepe e della messa. Con semplici gesti lo aiuta a sentirsi ancora una persona. Il cammino è ancora lungo per lui, quando arriva al Lorusso Cotugno, ammette di sentirsi un privilegiato perché nell’ala del polo universitario la vita carceraria è meno dura.

Anche perché il direttore del carcere dell’epoca Pietro Buffa, è un uomo illuminato, è riuscito a diminuire quella distanza che pare invalicabile tra carcere e società civile. Alla fine Roberto per buona condotta rinchiuso di anni ne ha passati 16, altri sei dormiva solo in carcere e di giorno lavorava grazie ad una borsa lavoro alla Caritas di Torino. Un passaggio determinante, così importante al punto che oggi, pur avendo una pensione minima, e dovendo fare i conti con i centesimi per mantenersi, dedica tutta la sua giornata come volontario alla Caritas, nel campo editoriale e in una mensa cittadina. “Quando ero in carcere – ricorda Roberto – quello che mi colpiva, che mi impressionava e non solo a me, del gruppo di Silvia era il loro impegno costante, ci aiutavano a comprendere che il carcere non era la fine di tutto, ma che potevano tornare ad essere persone su cui riporre fiducia. Mi aiutavano a sentirmi meno solo, sentivamo la loro presenza anche quando non c’erano. Un bagaglio importante, ora che sono fuori. Non è che le tentazioni non ci siano – ammette – ma ora le affronto in un modo diverso, certo in questo mi aiuta molto la fede”. Ma anche gli amici che non lo hanno lasciato solo. E forse anche per questo insieme ad altri ex detenuti ha fondato l’associazione San Lazzaro, un punto di riferimento sicuro, per non sentirsi soli e condividere le esperienze.

Per Silvia Orsi entrare al Lorusso Cotugno è stata l’occasione per porsi tante domande: come guardo l’altro? Sono capace di avere una relazione con l’altro che non dipenda dal pregiudizio? “Condividere qualche ora dentro le mura di un carcere – afferma – non ha alcun significato se non introduce un aiuto a me e all’altro, se non mi pone domande su che cosa significa condividere un tratto di strada. Devo essere prima di tutto io capace di guardarmi con benevolenza, questo è il primo passo per poter stare insieme ad un’altra persona, senza barriere, perché solo partendo dalla convinzione che ogni essere umano è uguale all’altro si può costruire un mondo di pace”.

Foto: MAX Ferrero / SYNC
www.maxferrero.it

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