La profondità di Teresina

Pubblicato il 04-05-2016

di Matteo Spicuglia

di Matteo Spicuglia - Il senso della vita di fronte alla malattia.
Ci sono luoghi dove il bene opera in silenzio, senza clamori. Passo dopo passo. Anno dopo anno. Costruendo così la speranza. Il Cottolengo di Torino è uno di questi. Nato dal cuore di un sacerdote dell’ottocento, commosso di fronte ad una donna incinta morta di malattia perché nessuno voleva curarla. La vita di don Giuseppe Cottolengo non fu più la stessa, come quella delle migliaia e migliaia di persone che in duecento anni hanno conosciuto la sua opera. Le gravi disabilità, gli ultimi che nessuno vuole, le persone in difficoltà. Accolte come parte di una famiglia. Nel nome della divina provvidenza che qui è la regola, la fonte di finanziamento, ma anche cura, partecipazione, amore.

Teresina è arrivata al Cottolengo oltre 50 anni fa. Originaria delle Marche, era una ragazza come tante, con sogni e voglia di futuro. La malattia incrociò la sua vita improvvisamente, nel cuore dell’adolescenza: il dolore alle gambe, la fatica a camminare, poi la paralisi e la carrozzina che non l’ha più abbandonata. La sofferenza a volte è implacabile, non si accontenta, si porta dietro altri strappi, altra fatica. Per Teresina, il gesto vigliacco del padre che dopo la morte della moglie, non riuscì ad affrontare la disabilità di quell’unica figlia. Forse la vergogna, forse perché negli anni ’60 si faceva così, forse il senso di inadeguatezza… Sta di fatto che Teresina fu portata a Torino con l’inganno, affidata alle suore del Cottolengo che lei nemmeno conosceva. Oggi vive ancora nella cittadella della solidarietà, a due passi da Valdocco e dall’Arsenale della Pace, dove il dolore è fasciato continuamente di disponibilità, speranza, amore. “L’inizio fu durissimo – racconta Teresina – perché ero giovane, non riuscivo ad accettare né la malattia, né la scelta di mio padre.

Qui però, trovai molte braccia tese e molti cuori aperti che hanno saputo accettarmi, aiutandomi così a vedere le cose diversamente”. La chiave di volta fu l’incontro con gli altri ospiti, con sofferenze molto più grandi. “Vedevo questi nuovi amici e non mi capacitavo della loro gioia. Perché quella luce? Allora, doveva esserci un senso!”. Quale? “Con il tempo, ho scoperto semplicemente che la vita era un dono e che per questo anche io avrei dovuto essere dono. La malattia e la sofferenza non sono belle, ma fanno parte dell’esperienza umana. Se le guardiamo in faccia, capiremo che non pongono limiti alla capacità di amare, alla capacità di donare. Per me è stata una scoperta grandissima”. La consapevolezza di Teresina ha incontrato presto la fede. “Senza sarebbe stato impossibile raggiungere un equilibrio, anche una certa serenità. Il dolore che provo incontra sempre la speranza di un Dio che ha vissuto in prima persona la strada del Calvario. Gesù porta su di sé tutto il bene e tutte le sofferenze del mondo. Raggiunge l’apice del dolore, per trasformarlo in gloria”.

Teresina non è una fanatica, quando parla di sé spiega con chiarezza che il cammino è stato lungo, per nulla scontato. Un cammino di contrasti e sfumature, di gioie e fatiche, di pace e di rabbia. Tutto adesso si è sciolto e ha incontrato anche il perdono. “Mi sono riconciliata intimamente con mio padre. Lui ha sbagliato, mi ha tradito, ma a un certo punto mi sono detta: se sono cristiana, devo avere la coerenza di vivere da cristiana, di esprimere con le azioni quello in cui credo. Non potevo fare altro che perdonare e così ho fatto. Ma sia chiaro, umanamente non sarebbe stato possibile”. Dopo tanti anni, qual è l’insegnamento più importante che si porta dentro? “L’aver capito che la malattia non è un abisso, ma una profondità. E che la speranza esiste: significa vivere e testimoniare la gioia. Nonostante tutto”.

Rubrica di Nuovo Progetto

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