Cene galeotte

Pubblicato il 15-09-2016

di Chiara Genisio

di Chiara Genisio - L’ultimo brindisi risale ai primi giorni di luglio, il calice alzato per festeggiare l’attentato a Dacca. Al grido di “Allah Akbar” in alcune carceri italiane un gruppo di detenuti brinda, come già era accaduto lo scorso 13 novembre 2015 subito dopo gli attacchi coordinati di Parigi contro il Bataclan, lo Stade de France e un bistrot. Stessa scena a poche ore dall’azione dei due commando a Bruxelles, all’aeroporto belga e alla metropolitana cittadina.

Festeggiamenti che non potevano certo passare inosservati. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha indicato in circa duecento il numero dei detenuti che in queste occasioni hanno mostrato di avere intrapreso la strada della radicalizzazione e di essere quindi “meritevoli di particolare attività di osservazione”. Da tempo, già prima di queste “manifestazioni festaiole”, l’intelligence ha avviato un monitoraggio non solo sui detenuti, ma anche su coloro (volontari, assistenti sociali, medici, imam) che varcano i portoni delle prigioni ed entrano in contatto con detenuti. L’attenzione è alta anche perché il pericolo della radicalizzazione nei penitenziari è un pericolo reale. Più che mai quindi è importante creare un clima diverso, dove la dignità di ogni persona è rispettata, dove i detenuti siano coinvolti in un percorso per il reinserimento nella società e non scuola di criminalità.

E per fortuna questo accade. E allora i brindisi non sono solo per inneggiare ad una strage, ma nascono per festeggiare un bel progetto, una bella iniziativa.
“InGalera” è una di queste. A Milano Bollate c’è una casa di reclusione che da dieci anni ha un catering di alto livello che da qualche mese ha compiuto un passo in più. Ora in questa “casa” si entra non solo per scontare la pena ma anche per consumare un pranzo e una cena stellata, d’obbligo solo la prenotazione (www.ingalera.it).
Qui ha sede il primo ristorante italiano aperto a tutti sei giorni su sette, firmato chef Ivan Manzo con la collaborazione del maitre Massimo Sestito. Con loro lavorano nove detenuti, regolarmente assunti. Il livello del ristorante è alto, al punto che lo ha recensito anche il New York Time sul suo sito, evidenziando che “È difficile immaginare una storia di successo culinario più inconsueta o un esperimento più intrigante di riabilitazione dei detenuti”. Si abbattono così barriere tra chi è dentro e chi sta fuori, offrendo professionalità e riscatto.
I numeri dimostrano, ogni giorno di più, che quando il carcere favorisce occasioni di formazione professionale e occupazioni di lavoro reale la recidiva diminuisce, come il pericolo di radicalizzazione. E la cucina gioca un ruolo centrale. Tanti chef si mettono in gioco, non solo in tv nei tanti show che imperversano da una rete all’altra, ma anche al chiuso, insegnando un’arte a chi ha sbagliato e sta pagando la sua pena. Accade a Volterra, con le “Cene Galeotte”. Da circa sei anni, professionisti della cucina si alternano offrendo il loro lavoro gratuitamente per formare dei nuovi “chef-detenuti”. Il risultato è un ciclo di cene, da gennaio a giugno, dentro la casa circondariale che ha sede nella splendida Fortezza Medicea.

Anche qui formazione e lavoro viaggiano sullo stesso binario. In più il ricavato delle cene viene integralmente devoluto per sostenere progetti di solidarietà della Fondazione “Il Cuore si scioglie onlus”.
Al binomio cibo e carcere negli ultimi anni sono state dedicate molte iniziative culturali, sia attraverso mostre che convegni e libri. Come quello dell’artista, con formazione antropologica, Matteo Guidi, che dopo alcuni anni di laboratori realizzati con i detenuti nel carcere di Spoleto ha raccolto in un volume ricette, tutorial per la produzione di attrezzi da cucina in un carcere di massima sicurezza.
Ai fornelli dentro un carcere di massima sicurezza si è cimentato anche lo chef stellato Pietro D’Agostino. Un maestro d’eccellenza per gli studenti dell’istituto alberghiero Karol Wojtyla di Catania, detenuti nel carcere di massima sicurezza Bicocca.

La prigione conosciuta per essere la “casa degli uomini di cosa nostra”. Lo chef, ambasciatore della cucina siciliana nel mondo, ha preparato con gli allievi dell’istituto alberghiero il pranzo di Natale dello scorso anno ed in primavera ha curato un nuovo ciclo di lezioni. Sono circa 75 gli studenti, con una media di 30 anni, che frequentano l’istituto alberghiero all’interno del penitenziario, un terzo del numero complessivo dei detenuti che stanno studiando per conseguire un titolo di studio superiore. La cucina d’autore dietro le sbarre ha allietato il Natale non solo a Catania, ma in diverse altre case circondariali italiane. Da Rebibbia a Opera, al Sant’Anna di Modena, al Pagliarelli di Palermo e tanti altri.
Ai fornelli gli chef e a servire attori e cantanti. Un evento che potrà diventare una tradizione. Cucina d’autore e cene galeotte possono diventare una bella opportunità anche per conoscere meglio l’universo carcerario e riflettere sul senso della pena.







Rubrica di NUOVO PROGETTO

 

 

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