Al di qua e al di là del confine

Pubblicato il 09-01-2017

di Lucia Capuzzi

di Lucia Capuzzi - Scure e massicce, le assi spezzano l’insenatura in due spicchi: Tijuana, da una parte, dall’altra, San Diego. Terminato l’arenile, la barriera prosegue per 22 chilometri. Con questo tratto, 26 anni fa, l’Amministrazione Bush diede avvio alla costruzione del muro che ora si estende per oltre mille chilometri.
Un terzo della cicatrice di terra che separa Messico e Stati Uniti. Là – dove The Border Fence ha avuto inizio –, il 19 novembre, l’arcivescovo di Tijuana, Francisco Moreno Barrón, ha collocato l’immagine della Vergine di Guadalupe. Sarà Lei, la Morenita – come la chiamano i messicani –, a ricucire la ferita del muro, tessendo “un ponte di pace, di amore, di misericordia”, ha spiegato monsignor Moreno Barrón, “benedicendo” “uomini e donne migranti in questo momento difficile”.

Dieci giorni prima, gli statunitensi avevano scelto come nuovo inquilino della Casa Bianca il repubblicano Donald Trump. L’intera campagna elettorale di quest’ultimo s’è incentrata sul muro. Inteso sia in senso fisico, come barriera da completare per sigillare l’intera frontiera e sbarrare l’accesso ai migranti irregolari, sia in senso metaforico come giro di vite sulla questione migratoria. Naturale, dunque, che i messicani al di qua e al di là del confine siano preoccupati.
Negli Stati Uniti risiedono undici milioni di irregolari, in stragrande maggioranza latinoamericani. Invano, l’Amministrazione Obama ha cercato di dare a questi ultimi un qualche canale per regolarizzare il proprio status. La ferrea opposizione del Congresso – controllato dai repubblicani – l’ha, però, impedito. Il presidente uscente ha, così, deciso di procedere con decreti esecutivi poi bloccati dai vari tribunali.

Tra i primi annunci, Trump ha ribadito l’intenzione di espellere tre milioni di irregolari. Uno in più rispetto a quanto fatto dal predecessore che, tra l’altro, ha ampiamente superato le cifre di Bush. Il magnate ha parlato di rimpatriare gli immigrati che delinquono. La preoccupazione, però, nella comunità latina resta alta. Molti fra gli irregolari, infatti, vivono negli Usa da più di un decennio (60 per cento) e un quarto di loro hanno figli cittadini statunitensi.

Almeno 1,9 milioni risiede nel Paese addirittura da vent’anni, altri 1,6 milioni di da oltre 15. Il rimpatrio – o deportazione, come lo chiamano i latinos – spezza le famiglie, rendendo migliaia di bimbi e ragazzi “orfani bianchi”. Per chi spera di entrare, il muro è già da 26 anni un nemico crudele, da cercare di aggirare a prezzo di atroci sofferenze. The Border Fence ha incrementato le morti e le violenze sugli irregolari. Ha, inoltre, trasformato la migrazione in un business redditizio per i potenti cartelli messicani della droga che, ormai, hanno il controllo del traffico di esseri umani. Eppure, la violenza non ha fermato la migrazione. Ed è improbabile che ora la fermino le minacce di Trump o l’aumento dei controlli al confine.

La ragione è semplice quanto drammatica. La tragedia dell’America Centrale rende la fuga di migliaia e migliaia di donne, uomini, bambini – 500 al giorno dal solo El Salvador inevitabile. Il cosiddetto Triangolo Nord – Honduras, El Salvador e Guatemala – è la regione più violenta al mondo. Là le gang – le maras – hanno acquisito il controllo di interi pezzi di territorio, in particolare slum e sobborghi, dove la presenza statale è tradizionalmente debole. E impongono la loro legge feroce. Tutte le attività commerciali – venditori ambulanti inclusi –, in particolare, sono obbligati a pagare il pizzo. Mentre i cittadini devono accettare il reclutamento – più o meno forzato – dei propri figli e figlie.

Le maras non ammettono deroghe o eccezioni. Le persone hanno tre possibilità: accettare, morire o fuggire. Sempre più centroamericani scelgono quest’ultima opzione o, meglio, sono costretti a sceglierla per salvarsi da un conflitto non riconosciuto quanto reale. In particolare, cresce il numero di minori soli in viaggio verso il Nord. Li mandano i genitori nel disperato tentativo di salvarli. Tra il 1 ottobre 2015 e il 30 settembre 2016, secondo i dati Unicef, le autorità hanno bloccato 60mila baby migranti centroamericani mentre cercavano di entrare negli Usa. Il Messico, da parte sua, tra gennaio e agosto 2016, ne ha stoppato oltre 10.500. Decine di migliaia di ragazzini premono alle porte Usa.

Se Obama, nel 2014, si era limitato a lasciare la porta socchiusa, è difficile che il successore decida ora di aprirla. A complicare ulteriormente la situazione, il fatto che al flusso tradi zionale di centroamericani si somma ora quello di africani, spinti verso l’America dalle crescenti difficoltà sulle rotte per l’Europa. Da gennaio a settembre, oltre 11.900 subsahariani hanno varcato la frontiera sud del Messico, passando da Tapachula, in Chiapas. Le entrate, però, si sono intensificate da agosto, con picchi di 300 al giorno.

Dall’inizio di ottobre, ce ne sono state già oltre 2.900. In tutto il 2015, ne erano stati censiti in totale 2.078, nel 2014 appena 785. Dopo un viaggio di 17mila chilometri, questi sperano di ottenere asilo negli Usa.
Già solo per presentare richiesta, però, devono attendere in media due mesi, accampati a Tijuana. Se finora avere una risposta positiva è stato difficile, ora la vittoria di Trump, rischia di diminuire ulteriormente le loro possibilità. Lasciandoli incastrati, dalla parte sbagliata del muro. E del mondo.







Rubrica di NUOVO PROGETTO

 

 

 

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