Cominciamo noi

Pubblicato il 08-07-2018

di Gabriella Delpero

di Gabriella Delpero - Fragili sì, ma non vittime.
Sempre più frequentemente mi capita di incontrare genitori preoccupati perché i loro bambini mostrano tutta una serie di manifestazioni che essi attribuiscono ad uno stato di “stress”.
E sempre più bambini – anche di soli sei o sette anni – affermano di sentirsi “stressati”. E moltissimi insegnanti confessano di lavorare in un costante stato di stress e ansia, visto che nel sistema scolastico attuale regna un clima di paura. Insomma, con chiunque mi succeda di parlare, termini come stress, ansia, paura, depressione o angoscia vengono comunemente usati non solo in riferimento a problemi insoliti o a condizioni particolari, ma semplicemente per descrivere normali episodi della vita di tutti i giorni o per riferirsi a ordinarie difficoltà o avversità.

È chiaro che viviamo in una cultura che dà molta importanza alle emozioni. Una tale importanza che anche il vocabolario si sta rapidamente modificando. Oggi tutti usiamo termini “terapeutici” e tentiamo spiegazioni del mondo guardandolo attraverso la lente delle emozioni. In particolare, nella descrizione dei comportamenti dei bambini e degli adolescenti di oggi viene sempre più usato da chiunque un linguaggio “psicologico”. Consideriamo per esempio la parola “autostima”. Ho letto che una ricerca condotta nel 1980 su 300 giornali inglesi (ricerca Factiva) non trovò nemmeno una ricorrenza del termine. Nel 1986 “autostima” compariva tre volte. Nel 1990 il numero era già salito a 103. Dieci anni dopo, nel 2000, venne rilevato ben 3.328 volte!

E siccome oggi una scarsa autostima viene percepita come un problema serio, è chiaro il perché questo vocabolo è finito sulla bocca di tutti. L’autostima preoccupa quando manca, così come preoccupano altre carenze emotive.
Domina ormai l’assoluta convinzione che gli individui e la società soffrano di un deficit emotivo, una sorta di malattia invisibile che mina la capacità di tenere sotto controllo la propria esistenza. Altra parola da sorvegliare: “depressione”. Si sente spesso dire che il numero dei bambini colpiti da depressione è in aumento: secondo uno studioso (Terence Real, 1999) negli Stati Uniti la depressione è un flagello peggiore della povertà e dall’inizio del ventesimo secolo la sua incidenza è raddoppiata.

E secondo un altro ricercatore (Gus Thompson dell’Università di Alberta, Canada) questa incidenza cresce con il diminuire dell’età, probabilmente a causa del maggior numero di traumi infantili subiti negli ultimi decenni dai bambini. Tesi piuttosto discutibile, a dir la verità, perché è davvero difficile credere che negli ultimi anni la nostra società occidentale sia diventata più violenta di un tempo proprio con i più piccoli. Forse ad essere cambiata è l’immagine del trauma che ci siamo recentemente costruiti! Oggi abbiamo paura di non avere sufficienti capacità di resistenza alla semplice fatica, agli inevitabili fallimenti, alle banali delusioni.

Così, molte esperienze che un tempo erano considerate normali sono vissute ora come “traumatizzanti” e il mondo esterno viene visto come fonte di costante pericolo. Il senso di impotenza che ne deriva non ha precedenti e diviene esso stesso sorgente di paura e di ansia. L’uomo di oggi si sente vittima delle circostanze della sua esistenza. Ma davvero siamo diventati tutti così fragili? Siamo incapaci di affrontare le prove della vita? E tutte le fasi della vita stessa, dalla nascita alla morte, comportano per forza dei gravi rischi? Domande che ancora troppo pochi si pongono. Cominciamo noi.

Gabriella Delpero
PSICHE
Rubrica di NUOVO PROGETTO

 

 

 

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