Memorie di guerra

Pubblicato il 17-07-2018

di Carlo Degiacomi

di Carlo Degiacomi - Il raduno dei Consigli Comunali dei Ragazzi (CCR) organizzato dal Consiglio regionale del Piemonte (il quinto) è stato dedicato quest’anno alla pace con il titolo: Non basta volere la pace! Significa che è stato introiettato quanto detto da decenni dal Sermig: bisogna fare azioni e buone pratiche per diffonderla! Non basta parlarne. Non a caso ospite dell’evento ad Avigliana (Torino) è stato Ernesto Olivero. Sono stati esaminati i tanti aspetti collegati dai diritti all’ambiente.

La guerra attuale in Siria ha avuto un focus particolare, con un consiglio comunale che ha “adottato” una bambina di 11 anni di Damasco, in guerra da quando ne aveva 4, che ha disegnato un suo ritratto intenta a cucire una spaccatura del terreno, come a sperare in una ricomposizione che non c’è.

Voglio però raccontarvi quanto l’occasione mi ha fatto riscoprire. Riguarda l’incubo della guerra in Jugoslavia (1993/1995) che tanti di noi hanno seguito, insieme disperati e impegnati concretamente per la pace. Vi segnalo il War Childhood Museum, di recente apertura. Mi sembra un interessante esempio da copiare anche in altre situazioni dove vi sono o vi sono stati conflitti e guerre. Nella città martire di Sarajevo, nel dopo guerra, il sistema istituzionale della Bosnia-Erzegovina impone la coabitazione tra rappresentanze politiche dei musulmani, dei croati e dei serbi, i tre popoli principali del Paese che nei tre anni di guerra si sono combattuti brutalmente. Nessuno o quasi fa sistematicamente i conti con la memoria, ogni parte giustifica le sue posizioni ambigue e terrificanti che portarono alla guerra e ai comportamenti durante il conflitto.

Oggi da poco tempo, tre musei privati gestiti tutti da giovani che al momento della guerra erano bambini, hanno iniziato la loro attività. Nel 2012 la Galleria 11 luglio 1995 racconta l’eccidio di Srebrenica: 8.372 musulmani bosniaci uccisi dai militari serbo-bosniaci. Nel 2016 il Museo dei crimini contro l’umanità e del genocidio (soprattutto immagini fotografiche e video). Nel 2017 il War Childhood Museum che racconta cosa significava essere bambino mentre gli adulti si sparavano addosso e sparavano anche sui bambini. La sede è nel centro vecchio, zona mercato, e il simbolo sono due bambini che sostengono un palloncino che è una granata. In primo piano l’aspetto della riflessione e della memoria in un caos culturale e civile che ancora non vuole confrontarsi. Un’idea originale di un giovane di circa 30 anni, Jasminko Halilovic che ha raccolto oggetti e racconti dei bambini di Sarajevo assediata. Sono tremila! L’esposizione in un locale piccolo (300 mq) è a rotazione, circa 60 oggetti per volta.

L’impostazione ruota intorno agli oggetti: un gioco, un berretto, un vestito, una radiolina, un disco, un imballaggio, una scarpa, un quaderno, un libro, una lettera, un’immagine fotografica, un ritaglio, una penna, un vaso, un bicchiere, aiuti umanitari come il cioccolato, le scarpette da ballo… Sarebbe tutto anonimo se non fossero appartenuti a chi al tempo del conflitto era bambini o ragazzo e ha accettato di donare insieme all’oggetto per lui significativo una storia, un racconto, una frase e spesso un video (mille testimonianze). La vita quotidiana, terribile, osservata da un punto di vista preciso con dolori, sorrisi, speranze, amicizie, emotività, difficoltà, con la propria esperienza piccola o grande… C’è chi, dopo, ha potuto scegliere lo stesso la sua strada, chi ha dovuto rinunciare, chi si è ripreso dopo lungo tempo, chi ha resistito, chi no. Ne emerge una creatività incredibile, una poesia, ma anche una denuncia e una riflessione che viene proposta e richiesta agli adulti. Prima è nato un libro, poi il museo.

Dal libro (per ora tradotto in 6 lingue tra cui l’inglese) riporto alcuni frammenti di frasi dei racconti, di chi ha partecipato alla raccolta del museo senza discriminazioni etniche. «Ho imparato il significato della parola “cecchino”». «Anche nei momenti più bui trovavamo un po’ di umorismo». «La paura più grande era di perdere i miei cari, ogni volta che si sentiva la notizia di una cattura!». «Volevo partecipare alle Olimpiadi della Gioventù in Inghilterra e mi allenavo ogni giorno». «Tutte le sere mettevo la mia bambola a dormire in una scatola da scarpe». «Pregavo di dimenticare ciò che avevo visto di giorno per dormire di notte!». «Il ricordo di una canzone di guerra che ho riscritto». «Vedere i cartoni e film in vhs era un problema per via della mancanza dell’elettricità». «Ho tenuto la confezione di dolci perché quando riuscivamo ad averne qualcuno li facevano durare per giorni». «Le cose che desideravi in una vita normale in una città assediata diventavano un infinito desiderio». «Quanto è stato velenoso e dannoso l’ambiente di guerra per il nostro sviluppo personale». «Il riso: una parola sufficiente a catturare il vasto mondo dei ricordi». «Ci chiedevamo perché sono così piccolo?».

Potete avere documentazione maggiore su internet: due indirizzi: War Childhood Museum anche su Wikipedia; War Childhood su Facebook. Il progetto senza sussidi ha raccolto in rete 200.000 dollari.

Mi sembra un “modello” da riprodurre, da copiare, da aggiustare ovunque vi siano o vi sono stati eventi di “frattura”, perché questo semplice meccanismo colpisce, arriva insieme al centro dell’emotività e della ragione per far riflettere sia chi visita quei luoghi martoriati sia chi vi abita. Forse per maturare dentro di sé in modo efficace, in forma corale un “BASTA!” netto a nuove divisioni e guerre.

Carlo Degiacomi
AMBIENTE
Rubrica di NUOVO PROGETTO

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