Fino alla fine

Pubblicato il 14-10-2018

di Matteo Spicuglia

di Matteo Spicuglia - Dieci anni fa, i massacri nello Stato indiano dell’Orissa. Un sacrificio che nessuno dimentica.
È una delle ultime immagini di padre Bernard Digal: inchiodato ad un letto di ospedale, ma sereno. I segni di chi lotta con tutto se stesso, nonostante l’ora vicina. Padre Bernard era economo della diocesi indiana di Bhubaneshwar, nello stato dell’Orissa. In una notte di agosto di dieci anni fa, fu picchiato brutalmente da uno squadrone di estremisti indù, lasciato tramortito e nudo per ore nella foresta. A ritrovarlo fu il suo autista che riuscì a portarlo in ospedale: due mesi di agonia, poi la morte, il tempo per riuscire a raccontare quello che aveva visto. «L’attacco contro i cristiani dell’Orissa è stato un attacco contro la sacralità e la dignità della vita umana; – disse all’agenzia AsiaNews – il mondo deve sapere. In alcuni Paesi perfino gli animali vengono difesi nel loro benessere da leggi e diritti. A Kandhamal siamo stati trattati peggio degli animali: ogni cosa indegna, ogni oscenità, ogni tortura è stata possibile contro i cristiani. Uomini. Donne, bambini, tutti sono stati oggetto di atrocità brutali».

È forse la testimonianza più forte della follia di quelle settimane, la più grande ondata di violenza anti cristiana nella storia dell’India. Tutto avvenne in poche ore, dopo l’omicidio di Laxmanananda Saraswati, esponente di punta del radicalismo induista.
Si diffusero subito le voci sulle presunte responsabilità della minoranza cristiana, nonostante la rivendicazione dei guerriglieri naxaliti, di stampo maoista.v Parole al vento, forse un pretesto per regolare conti antichi. Sta di fatto che gli estremisti indù passarono immediatamente ai fatti.

I sopravvissuti non possono dimenticare quello che videro: oltre cento vittime bruciate vive, stuprate, fatte a pezzi, molte altre, almeno 2mila, costrette ad abiurare la loro fede. Per non parlare dei danni materiali: secondo i dati del National Solidarity Forum, furono distrutte 393 chiese e luoghi di culto e rase al suolo 6500 case. In totale, vi furono 56mila profughi, costretti a fuggire o a rifugiarsi nelle foreste. Dopo dieci anni, gli sfollati sono ancora sparpagliati in diverse parti del Paese.

Molti non possono tornare nei loro villaggi di origine e sono stati costretti a rifarsi una vita fuori dal loro distretto di nascita. Soprattutto, nessun responsabile degli omicidi è finito in carcere. In generale, su 3331 denunce presentate per quei fatti, poco più di 800 sono state accettate. Di queste, solo 247 si sono concluse con una condanna per gli assalitori.
Una ferita aperta, ma anche un segno di speranza per chi vive da sempre da minoranza. Per i cristiani dell’India, i morti di Orissa sono martiri.
E non è un caso se l'anno scorso la Chiesa locale ha deciso di aprire il processo di beatificazione. Non ha dubbi il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai: «Sull’esempio di chi è morto, la gente oggi ha una grande fede in Cristo. Quegli uomini sono davvero martiri della fede. Volevano, infatti, che rinnegassero Cristo, che dicessero di non credere in lui, ma loro hanno detto che questo non era possibile, perché per loro Cristo era tutto. Per questa ragione sono stati uccisi e hanno subito tanta violenza».

Matteo Spicuglia
COSE CHE CAPITANO
Rubrica di NUOVO PROGETTO

 

 

 

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