Dio, perché? (2/4)

Pubblicato il 10-08-2012

di don Dario Berruto

di don Dario Berruto - La ricerca di una risposta.

Icona di Giobbe malatoAbbiamo scelto di affrontare insieme il difficile tema del dolore, o della sofferenza, del male, da cui sgorgano le lacrime di cui è intriso il mondo oggi come lo fu in tutta la storia. Ci accostiamo a questo tema con timore e tremore, seguendo il cammino di Giobbe, che cercheremo di illuminare con la passione di Gesù.

Abbiamo detto che il libro di Giobbe è un libro sapienziale, di spiritualità, in cui non dobbiamo ricercare elementi storici particolari. Giobbe ci viene presentato come un uomo giusto, che Dio stesso, per ben due volte, definisce integro e retto, persona che teme Dio ed è aliena dal male. Non è una piccola lode questo apprezzamento di Dio, ma Satana, vedendo la ricchezza e la salute di Giobbe, pone questa domanda cruciale: “Forse che Giobbe teme Dio per nulla?” Prova, dice in sintesi Satana, a toglierli tutto, ricchezze, affetti e salute, e vedrai come ti benedirà. Dio accetta la sfida e su questo uomo integro e retto si abbattono tutte le disgrazie possibili: viene spogliato di tutti i suoi beni, perde la famiglia e la salute ma, quando queste sventure piombano su di lui, “Giobbe non peccò con le sue labbra”.


IN SILENZIO CON CHI SOFFRE

William Blake, I tormantatori di GiobbeGiobbe a questo punto non ha più nulla, è soltanto una povera creatura sofferente, toccata da tutte le dimensioni del male, che si gratta le sue piaghe con un coccio, seduto sulla cenere. A questo punto arrivano gli amici di Giobbe: Elifaz il temanita, Bildad il suchita e Zofar il naamatita, che, all’udire delle sue disgrazie, erano partiti per andare a condolersi con lui ed a consolarlo.

Sentiamo come viene descritto il loro arrivo (Gb 2,12-13): “Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero e, dando in grida, si misero a piangere. Ognuno si stracciò le vesti e si cosparse il capo di polvere. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore”.

Il comportamento iniziale dei tre amici di Giobbe fa ben sperare, perché giungono e compiono subito le azioni giuste, in quanto si mettono a piangere, a piangere con lui, e tacciono. Per sette giorni e sette notti questi amici non dicono nemmeno una parola: è l’incapacità dell’uomo di spiegare il mistero del dolore, il modo giusto per stare vicino a chi soffre. Di fronte ad una persona sofferente, piangi con lei e taci.


LA SOLITUDINE DELLA SOFFERENZA

Marc Chagalle, GiobbeDopo che sono passati sette giorni e sette notti, avviene una cosa impressionante: il lungo silenzio viene rotto dall’urlo di Giobbe, viene squarciato da un grido allucinante, e Giobbe si fa portavoce di tutti i sofferenti del mondo (Gb 3,1-26). Giobbe esordisce maledicendo il giorno in cui è nato e la notte in cui fu concepito, e si chiede perché non gli è stato dato di morire nel seno di sua madre o di spirare appena uscito dal grembo, tessendo l’elogio della morte, e chiedendo “ perché dare la luce a un infelice o la vita a chi ha l’amarezza nel cuore”. Termina poi dicendo “non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo e viene il tormento!”.

Quando tutte le sventure possibili sono piombate su Giobbe, egli non ha peccato con le labbra, ha accettato il volere di Dio. Come mai allora Giobbe è ora in piena ribellione? Perché non basta la generosità di un momento, si deve fare il conto con il tempo: la durata del dolore, della prova, sconvolge l’uomo e lo rende solo di fronte alla sua sofferenza. Infatti la caratteristica peculiare della sofferenza è che ci separa dagli altri, ci rende soli, unici. La sofferenza, la morte, non possono essere trasmessi agli altri, nessuno può prendere il mio posto, sostituirmi. La sofferenza e la morte sono miei, solo miei, e quindi vi è il rischio per chi soffre di diventare sempre più distante dagli altri. Solo, nel deserto della mia solitudine, sento allora affiorare in me la domanda più universale che possa esistere: che senso ha vivere? Chi non ha mai provato sulla sua pelle questo “perché”, magari per delle persone care? Al vedere la sofferenza, acuta, e prolungata, seguita poi dalla morte, ci siamo forse posti la domanda di Giobbe: “ Perché dare la luce a un infelice?”.

Ricordiamoci che questo perché è una reazione naturale dell’uomo
e, anticipando un elemento cristologico, pensiamo al “perché” di Gesù sulla croce: perché mi hai abbandonato. Sul Calvario si concentrano tutti questi perché. A questo punto subentra il primo amico di Giobbe, Elifaz, che interviene (Gb 4,2-6) cercando di farlo ragionare, come se qualche parola potesse essere efficace per qualcuno che sta soffrendo in quel modo. Il primo argomento di Elifaz può far riflettere tutti: “Ecco, tu hai istruito molti e a mani fiacche hai ridato vigore; le tue parole hanno sorretto chi vacillava e le ginocchia che si piegavano hai rafforzato. Ma ora questo accade a te e ti abbatti; capita a te e ne sei sconvolto. La tua pietà non era forse la tua fiducia e la tua condotta integra, la tua speranza?”.

In effetti è facile “sputar sentenze” quando si sta bene, ma quando si soffre? È una domanda che ci tocca tutti: quando improvvisamente dovessimo passare dalle vesti del consolatore a quelle del consolando, come reagiremmo?
Poi Elifaz prosegue con un’argomentazione (Gb 4,7-8; 17) che verrà ripresa anche dagli altri amici di Giobbe, ed è un’argomentazione seria, che costituisce il nocciolo dei loro discorsi: “quale innocente è mai perito e quando mai furon distrutti gli uomini retti? Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina affanni, li raccoglie”, “può il mortale essere giusto davanti a Dio o innocente l’uomo davanti al suo creatore?”.


Eliphaz accusa GiobbeSVENTURA E COLPA

Elifaz, e poi gli altri amici, dicono a Giobbe: tu sei nella sofferenza, le tue disgrazie si sono abbattute su di te, perché tu hai peccato: è la tua sofferenza stessa che ti accusa, perché Dio premia il buono e punisce il malvagio. È la dottrina della retribuzione terrena: l’uomo riceve durante la sua vita il premio e il castigo per le sue azioni, il suo comportamento. Questa dottrina della retribuzione era inizialmente applicata al popolo di Israele nel suo insieme, ed a questo riguardo si possono citare molti passi di parecchi libri della Bibbia: Levitico, Deuteronomio, Giudici, Re, e tutta la predicazione profetica è basata su di essa. Se poi si estende l’applicazione della dottrina della retribuzione al singolo individuo, sulla base della responsabilità individuale, e se ci si limita alla retribuzione su questa terra, come allora si pensava e come affermano gli amici di Giobbe, si deve affermare che nessun giusto può soffrire, e quindi se Giobbe soffre è perché ha peccato. Ma Dio stesso ha affermato, per ben due volte, che Giobbe era un uomo integro e retto, che temeva Dio ed era alieno dal male.

Gli amici di Giobbe, basandosi su una dottrina messa alla base del rapporto tra Dio e il suo popolo nel corso della storia, la applicano con rigore matematico al singolo individuo e al singolo caso, e vedono una stretta correlazione di causa tra osservanza dei comandamenti e felicità, tra sventura e colpa. Guardate che questa convinzione è ancor oggi molto diffusa, e sottilmente si annida in tutti noi: di fronte ad una sventura ci viene naturale chiedere: cosa ho fatto di male per meritarmi questo?

Ogni giorno i sacerdoti sono avvicinati da persone infelici, toccate personalmente o nella famiglia da disgrazie, malattie e dolore, che pongono questa domanda angosciata: cosa abbiamo fatto di male perché Dio ci tratti così? Questa matematica correlazione tra sofferenza e peccato, è sviluppata non solo da Elifaz, ma anche dagli altri due amici di Giobbe. Bildad al capitolo 8 e Zofar al capitolo 11 riprendono ed ampliano questo concetto. Zofar giunge a dire: Volesse Dio parlare ed aprire le labbra contro di te (….) allora sapresti che Dio ti condona parte della tua colpa”. “Egli conosce gli uomini fallaci, vede l’iniquità e l’osserva: l’uomo stolto mette giudizio e da onagro indomito diventa docile”, “ Ma gli occhi dei malvagi languiranno, ogni scampo è per essi perduto, unica speranza è l’ultimo respiro”.

Zofar in pratica gli dice: se sei in queste condizioni è perché ne hai commesse proprio tante, e ora Dio ti sta ripagando. Anzi, meriteresti di soffrire ancora di più, ma Dio ti condona parte della tua colpa. E attenzione: se hai peccato per stoltezza, ti rendi conto che questa è una salutare correzione di Dio, ti ravvedi e tutto tornerà come prima. Ma se ti ostini nel tuo errore e dimostri la tua malvagità, non avrai scampo fino alla morte.


RICERCA DI UNA RISPOSTA NUOVA

MultipleWorlds Media, Sofferenza di GiobbeMa Giobbe non ci sta, non accetta le argomentazioni dei suoi amici: soffri, quindi hai peccato. A più riprese, ad iniziare dal capitolo 6, Giobbe replica ed insiste sulla sua innocenza, chiedendo ai suoi amici di non rivolgergli delle accuse generiche, fondate solo su un nesso di causalità sofferenza- peccato, ma di dirgli concretamente cosa ho fatto di male, in cosa ho sbagliato, quali sono i suoi peccati. È facile dire: nessun uomo è giusto davanti a Dio, nessuno è privo di colpe; ditemi in cosa io, Giobbe, ho peccato. “Istruitemi e allora io tacerò. Fatemi conoscere in cosa ho sbagliato. (…) Che cosa dimostra la prova che viene da voi?” (Gb 6,24).

Di fronte alle proclamazioni di innocenza di Giobbe, gli amici si scandalizzano. Giobbe potrebbe semplicemente aver sbagliato per ignoranza o per umana debolezza, e se riconoscesse i suoi errori Dio lo perdonerebbe. Ma Giobbe continua a proclamarsi innocente, e, secondo loro, così facendo aggiunge peccato a peccato.
Elifaz giunge a dire (Gb 15,4-6) “Tu anzi distruggi la religione e abolisci le preghiere innanzi a Dio. Sì, la tua malizia suggerisce alla tua bocca e scegli il linguaggio degli astuti. Non io ma la tua bocca ti condanna e le tue labbra attestano contro di te”. In altre parole: caro Giobbe, tu sei diventato ateo, perché tu non credi più che Dio premia e punisce secondo i propri meriti, non credi più che se sei in questa situazione è perché ne hai combinate delle grosse.

Pensiamo un momento se qualcuno volesse sostenere queste argomentazioni con un bambino di tre anni che sta morendo. Gli amici di Giobbe credono nella retribuzione già su questa terra perché pensano che sia fondata sulla giustizia di Dio: Dio è giusto, e non può che comportarsi con giustizia. Giobbe invece, di fronte ad una situazione che mette in crisi le vecchie risposte, si interroga e cerca, invano, una risposta nuova. Apparentemente Dio si sta comportando in modo ingiusto, e Giobbe ha il coraggio di dirlo. I suoi amici invece hanno paura che crolli il loro rigido schema religioso e difendono Dio a tutti i costi. Se i fatti terreni dimostrano che a volte apparentemente Dio è ingiusto, tanto peggio per i fatti, loro non si scuotono dal loro atteggiamento pigro, impersonale, che ha paura a porsi dei perché e a cercare risposte nuove. Meglio ostinarsi a non vedere la realtà delle situazioni che pure sono sotto i nostri occhi.


L’INTUIZIONE DELLA SPERANZA

an Lievens, GiobbeEppure Giobbe, anche mentre contesta Dio, mentre gli dice lasciami stare, si aggrappa a lui con un appello accorato: “ Ben presto giacerò nella polvere, mi cercherai, ma più non sarò”. Vediamo il capitolo 19. Dopo affermazioni come “Sappiate dunque che Dio mi ha piegato, e mi ha avviluppato nella sua rete. Ecco, grido contro la violenza, ma non ho risposto, chiedo aiuto, ma non c’è giustizia (…). Ha acceso contro di me la sua ira e mi considera come suo nemico” (Gb 7,16-21).
Giobbe confessa la sua speranza in Dio e prende per suo difensore proprio quel Dio che lo imprigiona. Vediamo: “Io lo so che il mio vendicatore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero”.

Assoluto paradosso: Giobbe non ce la fa più a vivere, invoca la morte, Giobbe che anziché ricevere una qualche consolazione dai suoi amici si è soltanto sentito accusare, ebbene quel Giobbe qui confessa la sua speranza e prende per difensore proprio quel Dio che lo imprigiona. È misterioso questo brano: Giobbe sempre più solo, intuisce che in qualche modo, alla fine, quello stesso Dio che ora lo prova, lo imprigiona nella sofferenza, lo libererà. Abbiamo visto qualche piccolo brano del dialogo tra Giobbe e i suoi amici, dialogo che in realtà non è tale perché ciascuno resta arroccato sulle sue posizioni. Giobbe ha urlato il suo dolore, i suoi amici hanno risposto in modo sconsiderato, applicando in modo automatico ed acritico la dottrina della retribuzione. Però, in tutti questi discorsi, vi è un grande assente: Dio, che non apre mai bocca. Parlerà ancora un altro personaggio: Eliu (Gb 32), che ha ascoltato i discorsi e si è acceso di sdegno contro Giobbe “perché pretendeva di aver ragione di fronte a Dio” e contro i suoi amici “perché non avevano trovato di che rispondere, sebbene avessero dichiarato Giobbe colpevole”. Egli ribadisce ancora (Gb 34,11-12) che Dio “Ripaga l’uomo secondo il suo operato e fa trovare ad ognuno secondo la sua condotta. In verità Dio non agisce da ingiusto e l’Onnipotente non sovverte il diritto”. Poiché dunque Giobbe insiste nel dire “io son giusto” (Gb 34,5) e “porto la pena senza aver fatto il male” (Gb 34,21), “aggiunge al suo peccato, la rivolta” (Gb 34,37).

Finalmente, al capitolo 38, Dio rompe il suo silenzio. La prossima volta vedremo il dialogo tra Dio e Giobbe, vedremo quale risposta Dio dà, e ci chiederemo quanto essa sia per noi significativa. Termineremo poi queste riflessioni con la risposta vivente alla sofferenza, che ha nome Gesù Cristo.
Cerchiamo intanto di non consolare chi soffre usando le stesse argomentazioni usate con Giobbe dai suoi tre amici. Imitiamoli invece nel comportamento iniziale, cerchiamo di stare con chi soffre dimostrando la nostra solidarietà in silenzio, piangendo con chi piange. Potremo poi cercare di consolare il nostro prossimo sofferente con il volto e con il cuore di Cristo.

 

Vedi anche:
Dio, perché?   [1]  [2]  [3]  [4]

da NP 1993, a cura della redazione
da incontri all’Arsenale della Pace
testi non rivisti dall’autore

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