Dio, perché? (3/4)

Pubblicato il 10-08-2012

di don Dario Berruto

di don Dario Berruto - La risposta di Dio.

Il demonio ottiene da Dio di tentare Giobbe, Duomo di san GimignanoRiprendiamo questa nostra riflessione sul libro di Giobbe riassumendo quanto finora detto.
Ci viene presentato un uomo, che si chiama Giobbe, che Dio stesso definisce integro e retto, un uomo che teme Dio ed è alieno dal male. Dio è fiero di quest’uomo, ma Satana si presenta a Dio con una sfida provocatoria: certo Giobbe è un uomo retto e giusto, ma è anche uno che ha tutto, soldi, salute, successo, una famiglia invidiabile: prova a togliere tutto a Giobbe, tutto ciò che possiede e, se non è sufficiente, prova a togliergli anche la salute, e vedremo se continuerà a benedirti. La sfida viene accettata, e a Giobbe viene tolto tutto. Giobbe diventa una povera creatura infelice, che sta ormai quasi per morire, e come reagisce? Inizialmente bene, “non peccò con le sue labbra”. Ma il tempo passa, e il tormento rimane: resterà Giobbe così forte? No. Arrivano tre amici di Giobbe - Elifaz, Bildad e Zofar - e Giobbe, dopo sette giorni e sette notti, lancia il suo urlo di lamento, implorando la morte e ribadendo che Dio lo ha colpito senza motivo. I tre amici di Giobbe, che pure erano venuti per consolarlo, accrescono le sue afflizioni in quanto non sanno portare che un’unica argomentazione: Dio sempre premia i buoni e castiga i malvagi, tu hai un bel lamentarti ed imprecare, la tua stessa situazione ti condanna. Se sei in questo stato è perché hai peccato: pentiti, e tutto tornerà come prima. Giobbe reagisce, continua a dichiararsi innocente, e chiede ai suoi amici, visto che sono così sicuri che lui ha peccato, di spiegarli che cosa ha fatto di male, di elencargli le sue colpe. Questo dialogo tra sordi continua per dei capitoli interi, con gli amici che lo accusano basandosi unicamente sulle disgrazie che gli sono piovute addosso e Giobbe, sempre più avvilito e in rivolta, che continua a chiedere che gli siano additati i suoi peccati.

Abbiamo visto che compare poi un quarto personaggio, Eliu, che sa parlare meglio degli altri ma non aggiunge nulla di sostanzialmente nuovo. Eliu (Gb 34,9) rimprovera a Giobbe di aver detto: “Non giova all’uomo essere in buona grazia con Dio”. E Giobbe ha effettivamente detto, in sostanza, come diciamo noi quando ci capita qualche sventura: a cosa serve essere buoni cristiani, ma ne vale la pena, quando chi si comporta male è trattato meglio di noi? Giobbe è entrato in questa tentazione (Gb 21,7 e segg.). “Perché vivono i malvagi, invecchiano, anzi sono potenti e gagliardi? La loro prole prospera insieme con essi, (…) le loro case sono tranquille e senza timori; il bastone di Dio non pesa su di loro. (…) Finiscono nel benessere i loro giorni, e scendono tranquilli negli inferi”. Eliu dunque anche lui accusa Giobbe di aver peccato, perché Dio è giusto e quindi non lo avrebbe potuto colpire se fosse stato innocente, e rimprovera Giobbe (Gb 34,37) di aggiungere al suo peccato la rivolta.


Gerard Seghers, La pazienza di GiobbeTACERE PER SENTIRE DIO

Ci troviamo di fronte a due posizioni contrastanti, in cui ognuno è irriducibile nel sostenere la sua tesi. Vi sono queste cinque persone che discutono, o meglio quattro che accusano e Giobbe che si difende chiamando in causa Dio. Ma Dio tace. L’abbiamo sentito dire all’inizio che Giobbe è integro e retto, l’abbiamo sentito dar carta bianca a Satana, ma ora tace. Vi sono questi cinque personaggi che discutono, si accusano, persuasi di essere i soli possessori della verità, vi è Giobbe che impreca sempre di più per via del silenzio di Dio. Quando tutti - forse perché stanchi e stufi - smettono di parlare, di ripetere nei loro monologhi le stesse identiche cose con parole un po’ diverse, e non si intravede come possa stabilirsi tra di loro una qualche forma di comprensione reciproca, ecco che Dio si fa vivo, fa udire la sua voce, interviene (capitoli 38-41).


Raffaello Sanzio, Creazione degli animaliIL SENSO DELLA RISPOSTA DI DIO

Il capitolo 38 inizia con queste parole: “il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine”. È il turbine, la tempesta di Giobbe, quello che ci portiamo dentro quando soffriamo o vediamo soffrire. E Dio parla poi a Giobbe facendogli delle domande, anziché dargli delle risposte, ponendogli molte domande, tra le più strane che ci sia dato di sentire. Vediamone alcune:
“ Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?”
“Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell’abisso hai tu passeggiato?”.
“Sei mai giunto ai serbatoi della neve, hai mai visto i serbatoi della grandine?”.
“ Chi ha elargito all’ibis la sapienza o chi ha dato al gallo l’intelligenza?”.
“ Sai tu quando figliano le camozze ( capre selvatiche) e assisti al parto delle cerve?”.
“ Chi lascia libero l’asino selvatico e chi scioglie i legami dell’onagro?”.
“L’ala dello struzzo batte festante, non è forse penna e piuma di cicogna?”.
“ Forse per il suo senno si alza in volo lo sparviero (…) o al tuo comando l’aquila si innalza?”.
“ Ecco, l’ippopotamo (…) mangia l’erba come il bue. (…) Chi potrà afferrarlo per gli occhi, prenderlo con lacci e forargli le narici?”.

Le domande del Signore appaiono a prima vista un po’ strane e fuori di luogo. Giobbe potrebbe dirgli: “ Ma come, Signore, io sto morendo, non ne posso più, e tu mi parli di capre selvatiche, ippopotami e struzzi?”. In effetti, immaginate una persona accanto a qualcuno che soffra come Giobbe, che, per consolarlo, inizi a parlare di coccodrilli, asini, onagri, ibis, struzzi, ippopotami ed altri animali ancora, come per dirgli: stai soffrendo? Vieni, ti porto ad un immaginario giardino zoologico. Perché allora Dio risponde così? Cosa ha in mente? Dio vuole sviluppare una delicata psicologia che porti Giobbe a capire poco per volta la verità sull’uomo, su questa sua creatura. Pare voler prendere Giobbe per mano e fargli vedere il film della creazione (Gb 38,2-35) chiedendogli, con parole poetiche: c’eri tu quando la terra è stata fondata? Tu sai come si fa a stendere il cielo con le stelle? Se tu capace di prendere le stelle e legarle con fili d’argento per formare le costellazioni della galassia? Sei penetrato nei segreti del microcosmo? Dov’eri quando è avvenuto il Big Bang? Sai perché sono spariti i dinosauri?


William Blake, Il signore rispone a Giobbe in mezzo a un turbineL’ACCOGLIENZA DEL MISTERO

Dio vuole costringere Giobbe con molta delicatezza, a misurarsi col mondo che lo circonda, questo mondo in cui l’uomo, che pure lo domina, non sa quasi nulla. Vuole fargli percorrere un cammino, che non è un cammino razionale per giungere a elaborare una risposta logica e teorica al problema del male, ma che gli serve per fare un’esperienza nuova di se stesso, e quindi del suo rapporto con Dio e con il mondo. La risposta di Dio non è razionale ma esperienziale: prende Giobbe per mano e gli fa fare semplicemente un’esperienza di verità su di sé. Giobbe è così aiutato da Dio a misurarsi sulla sua realtà di uomo, di uomo che non sa nulla della vita, e quindi non sa nulla della sofferenza e della morte. Dio non inchioda Giobbe brutalmente alla sua limitatezza, ma con dolcezza, nella meraviglia e nello stupore, lo aiuta a riconciliarsi con la verità: l’uomo è nulla; l’uomo è nulla per un verso, ma è tutto per il cuore di Dio.

Giobbe deve fare questa esperienza, l’esperienza che farà Nicodemo. Nicodemo dirà a Gesù: Maestro, noi sappiamo che tu fai delle cose importanti, e che nessuno potrebbe fare cose importanti come te se non viene da Dio. Egli pensa di sapere tutto su Gesù, ma Gesù gli risponde: Nicodemo, se uno non rinasce dall’alto non può né capire, né entrare nel regno di Dio. Capire che cosa? Il senso della vita, il senso della morte, il senso del soffrire. Anche Giobbe, per questa via esperienziale, capisce poco per volta di essere davanti ad un mistero, perché la sua sofferenza è un mistero di cui non ha la chiave interpretativa. Giobbe fa un’esperienza di creaturalità, che lo riconcilia ad un tempo con la sua pochezza e con la sua capacità di accogliere il mistero; pochezza e capacità di cui diviene consapevole. Ed è proprio qui che consiste la grandezza dell’uomo: nella consapevolezza di essere nulla e di essere ciononostante capace di accogliere il mistero: è infatti nell’accoglienza del mistero, non nella pretesa di giungere a capirlo ed a spiegarlo, che l’uomo si apre alla dimensione dell’eternità, dell’infinito. Accogliendo il mistero, l’uomo giunge all’accettazione della vita così com’è, ivi compresa la sua, più o meno grande, porzione di sofferenza e di dolore.

Dio, la vita, la morte, il patire, rimangono per noi un mistero. Possiamo cercare in vari modi, con la riflessione, la discussione, la rivolta, di capire qualcosa di questo mistero, ma ciò non ci servirebbe a nulla: possiamo soltanto accoglierlo, non capirlo. Pensiamo a Francesco d’Assisi, a com’era un anno prima di morire. L’ordine da lui fondato se ne sta andando per conto suo, lui è ormai un emarginato, un uomo malato, in particolare la luce, anche bassa, ferisce i suoi occhi. Quest’uomo senza più salute, emarginato, di ritorno dalla terra dove ha ricevuto le stimmate va a San Damiano da Chiara e lì compone il Cantico delle Creature. A chi legge il cantico verrebbe naturale di pensare che sia stato composto in un momento in cui Francesco esplode di vita, ed invece lo ha composto in un momento di totale prostrazione, ma Francesco non pretende di capire perché stia soffrendo, accoglie il mistero e nella sua sofferenza compone il cantico. Allo stesso modo Giobbe giunge all’accoglienza del mistero, e risponde al Signore confessando la propria meschinità (Gb 40,4-5): “Ecco, son ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò. Ho parlato due volte, ma non continuerò”.

Giobbe è pronto per ascoltare l’ultimo discorso dove Dio (Gb 40,7-14), gli pone una domanda decisiva e fondamentale. Infatti Dio, in estrema sintesi, chiede a Giobbe: vuoi fare il cambio con me? Io ti interrogherò e tu mi istruirai, io farò l’uomo e tu Dio.
Ecco il problema: di fronte al mistero della sofferenza, riuscire ad accettare di essere uomo e di non essere Dio. Il problema della sofferenza non è risolto in termini di risposta razionale, ma accettando fino in fondo, dentro di noi, il mistero di Dio, che è capace di operare salvezza anche dentro la morte. Dio consola chi soffre non negando il dolore, non facendolo dipendere da una colpa come hanno fatto gli amici di Giobbe, Dio consola l’uomo aprendolo alla speranza. L’uomo deve soltanto accogliere il mistero, e questa accoglienza ha un nome: Gesù Cristo.
Noi sappiamo che queste parole di Dio sulla sofferenza non sono le sue ultime parole, e che la sua Parola incarnata, Gesù, farà saltare l’immagine di un Dio impassibile e imperturbabile, rivelandosi come un Dio che è capace di soffrire.


Giampiero Pignatelli, La disperazione di GiobbeL’AMORE DISINTERESSATO

La risposta di Dio a Giobbe è anche una risposta alla domanda di Satana: Giobbe teme forse Dio per nulla? Cosa ci guadagniamo ad essere cristiani se dobbiamo soffrire come tutti, anzi a volte più degli altri? La risposta è in quell’elenco di animali disparati: struzzi, ippopotami, coccodrilli, ibis, onagri… A cosa servono? A niente: appartengono alla pura gratuità dell’amore.

Giobbe comprende: per un momento anche lui era caduto nella stessa logica dei suoi amici. Cosa dicevano a Giobbe i suoi amici? Se soffri è perché hai peccato, ma è sufficiente che tu ti converta e riconosca le tue colpe, e Dio allontanerà da te la sofferenza e tutto ritornerà come prima. È vero che Giobbe diceva: io sono innocente e Dio mi deve una spiegazione, senza la quale è inutile vivere, ma anche lui sotto sotto aveva degli interessi, come tutti noi. È inutile di fronte al dolore cercare il peccato che lo ha originato, il dolore fa parte degli imperscrutabili disegni di Dio. La sofferenza rientra nei piani di Dio ma rimane un mistero: di fronte a questo mistero dobbiamo continuare a fidarci di lui, che ci ama, e non dubitare mai.


Padre Hugh Witzmann, Giobbe in preghieraIL DOLORE CHE APRE GLI OCCHI

Ma proseguiamo col testo del libro di Giobbe. Ha parlato Dio, ha risposto Giobbe, ha riparlato Dio, ed ora Giobbe pronuncia delle grandi parole (Gb 42,2-6), conclusive. Giobbe dice: Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere”. Giobbe ha provato una sofferenza così grande che l’ha portato alla rivolta, ha dovuto subire le accuse dei suoi amici, ed ecco che dentro quell’abisso di dolore Giobbe può dire: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono”.

Ti conoscevo per sentito dire: fino a che non attraversiamo la buia gola dello Sheol, le anguste strettoie della sofferenza, del dolore, noi conosciamo il Signore per sentito dire. Ma nella misura in cui entriamo nella sofferenza con fede e ci restiamo con fiducia, ci accorgiamo di poter dire: ma ora, proprio adesso che soffro, i miei occhi ti vedono, Signore, anche se la visione piena l’avremo solo a quel punto limite che sarà la morte. Dobbiamo pregare sovente nel nostro cuore queste parole, per non essere dei dilettanti di fronte alla sofferenza, al male, al patire innocente. Dobbiamo crescere come cristiani, diventare capaci di meditare a fondo questi testi, per non ragionare come gli amici di Giobbe o come Satana, e poter dare speranza, sapendo che la risposta ultima alla sofferenza si chiama Gesù.

 

Vedi anche:
Dio, perché?   [1]  [2]  [3]  [4]

da NP 1993, a cura della redazione
da incontri all’Arsenale della Pace
testi non rivisti dall’autore

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok