Chi sei tu?

Pubblicato il 30-01-2013

di Flaminia Morandi

domanda.jpgQuelli che si ritengono capaci di comprendere Dio, farebbero bene a guardare dentro se stessi: hanno forse compreso lo spirito che è in loro? Sappiamo ben poco chi siamo; e quello che sappiamo lo copriamo accuratamente con il velo della menzogna, dice Doroteo di Gaza, l’unico monaco che ebbe il permesso di portarsi in monastero la propria biblioteca.

Doroteo scrive che ci sono tre modi di mentire. Con il pensiero: come il presuntuoso che, se vede due conversare, subito pensa “Parlano di me!” e interpreta qualunque parola come detta contro di lui. Con la parola: come il pigro che s’alza tardi la mattina e invece di ammettere la sua debolezza, dice “Avevo la febbre”, o come l’indeciso che invece di rispondere francamente a un invito “Non ho voglia”, accampa scuse di malattie inesistenti. Con la vita: come l’avaro che esalta la bellezza della povertà o il libertino che si finge casto. Di quest’ultima menzogna Doroteo ne sapeva qualcosa: era tormentato da una sessualità sfrenata, dalla quale però fu liberato quando smise di mentire a se stesso. Il suo padre spirituale Barsanufio gli propose un singolare contratto: se Doroteo prometteva di guardarsi dall’orgoglio e dalla maldicenza, lui, Barsanufio, avrebbe preso su di sé i suoi incubi sessuali. Doroteo guarì così bene da fondare lui stesso, in seguito, una comunità.

Sappiamo molto poco chi siamo; ci nascondiamo dietro la scusa del carattere. Ma il carattere è solo il nostro modo esteriore di essere. Il carattere non è fatto dei nostri pensieri, desideri, parole, atti, ma del modo in cui pensiamo, desideriamo, parliamo e operiamo. Il modo di essere corrisponde al modo del corpo: ognuno ha il suo, con il suo modo di funzionare e i suoi malanni, perché anche il modo di ammalarsi è personale. C’è un modo nella sfera affettiva: si può essere egoisti o generosi, umili o presuntuosi, ottimisti o pessimisti. O nella sensibilità: uno è impressionabile, l’altro freddo, uno è introverso, l’altro espansivo. Ma il nostro carattere conta ben poco agli occhi di Dio. Come in un volto, nel carattere, per quanto si cerchi di descriverlo, c’è sempre qualcosa che sfugge e resta misterioso. È questo qualcosa che conta, ai suoi occhi.

creazione.jpgL’uomo, dice Gregorio di Nissa, è a immagine di Dio. È impossibile che Dio, buono per essenza, sia padre di un uomo di cattiva volontà. Impossibile che il Santo sia padre di un corrotto. Impossibile che il Donatore della vita abbia come figlio uno che il peccato ha sottomesso alla morte. Eppure spesso la nostra coscienza è coperta di fango. Si chiede Gregorio: perché allora il Signore Gesù ci insegna a chiamare Dio col nome di Padre? Perché vuole dirci che la nostra vocazione è essere figli e liberi di scegliere la vita santa come criterio del nostro comportamento.
Libertà però non significa fare quello che ci va. Libertà, dice il mistico ebraico Abraham Heschel, è apertura alla trascendenza, è andare oltre la necessità, oltre i limiti del carattere. L’uomo è libero quando fa il bene, quando decide di operare in sintonia con lo spirito di risurrezione che lo abita.

L’uomo non è libero quando fa il male, quando obbedisce a forze estranee allo spirito del Figlio, che lo ricacciano in basso, nel fondo della dipendenza al peccato originale della sua famiglia, della sua storia psicologica, delle sue inclinazioni di carattere, delle ferite che la vita gli ha provocato. La libertà è varcare il limite per essere trasportati verso il compimento fondamentale di ogni persona: la liberazione dall’egocentrismo e la crescita nell’amore per la vita.

Ai tempi di Benedetto nei monti della Marsica viveva un eremita di nome Martino, che per ascesi si era legato a un piede una catena di ferro. Benedetto lo venne a sapere e gli mandò a dire: “Se tu sei servo di Dio, non ti tenga la catena di ferro ma la catena di Cristo”.
L’eremita, che era un uomo di Dio, gli obbedì subito e si liberò della catena. Intanto nel monastero di Benedetto si era logorata la fune che serviva a tirar su l’acqua dal pozzo. I monaci allora attaccarono la catena di ferro di Martino alla corda spezzata, che da allora non si ruppe più. Attaccata al secchio, la catena aveva trovato la sua sede naturale. Anche Martino libero dalla catena trovò la sua completa realizzazione: cominciò ad avere discepoli e si ritrovò a vivere con loro in comunità. Ma solo dopo aver fatto, attraverso Benedetto, esperienza della vera libertà di Cristo: la catena dell’amore.


Flaminia Morandi
NP dicembre 2007

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