La modernizzazione della Cina

Pubblicato il 02-06-2013

di Claudio Torrero

 

Al termine dell’epoca comunista, la secolarizzazione fa i conti con la ripresa del fenomeno religioso.

di Claudio Torrero

 

[seconda parte]

LA MODERNIZZAZIONE DELLA CINA

Essa propone nella forma più traumatica il problema della secolarizzazione in aree in cui la cultura buddhista ha lasciato segni più duraturi e visibili nel tempo. Il Celeste Impero, la formazione statale più longeva della storia umana, che si è conservato fino alle soglie del Novecento, ha costituito lungo i secoli e nel succedersi delle dinastie un modello in cui un forte potere centralizzato ha saputo governare un territorio immenso con una struttura amministrativa propria. L’impronta originaria della Cina è anzi costituita da una cultura, quella confuciana, in cui il servizio allo Stato costituisce il centro dell’etica collettiva e addirittura dei legami cosmici.
In questo tipo di contesto il sopraggiungere del monachesimo buddhista ha presentato una realtà del tutto nuova: una struttura religiosa fortemente organizzata, senza pretese di controllo sociale ma comunque tale da costituire un contraltare all’apparato imperiale. Tant’è vero che i rapporti tra le due istituzioni hanno conosciuto lungo i secoli una continua oscillazione, dal conflitto e da momenti, sia pure sporadici, di persecuzione all’armonia con l’imperatore che si pone come protettore dei monaci e insieme come loro discepolo.

Le cose si sono complicate nel corso dell’ultimo millennio, per almeno due eventi. Innanzitutto la scomparsa del buddhismo dall’India ha spostato il baricentro della sua diffusione in un’area compresa tra la Cina e l’Asia centrale. In secondo luogo le conquiste mongole, senza mutare le strutture dello Stato cinese, ne hanno fatto il centro di un’aggregazione di popoli tendenzialmente panasiatica, i cui riferimenti andavano cercati in un contesto più ampio di quello cinese. In questo quadro prende forma una singolare, duplice esperienza.
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Da un lato in Tibet, un Paese in posizione appartata ma centrale negli equilibri dell’Asia, da secoli in competizione con la Cina, metteva radici il buddhismo Mahayana dell’India prima di scomparire dall’India stessa, in alternativa al buddhismo, pure Mahayana, finora sviluppatosi in Cina; d’altro canto tale forma di buddhismo riceveva una particolare protezione dagli imperatori mongoli. Nasceva così uno Stato interamente costituito intorno ai monasteri e alla sua suprema carica, il Dalai Lama, che estendeva la sua autorità morale su larghe parti dell’Asia centrale e sulla stessa Cina. Nasceva anche un rapporto gravido di conflitti tra la nuova istituzione e l’elemento più propriamente cinese del potere, destinato a precipitare definitivamente nel ventesimo secolo, quando la Cina, liberatasi dall’involucro del Celeste Impero, ne riprendeva tuttavia la vocazione sovranazionale, imponendo tra l’altro la sua sovranità al Tibet.

Da questo punto di vista la decisione dell’attuale Dalai Lama di accettare quella sovranità, richiedendo tuttavia l’autonomia culturale, è del tutto coerente con la storia precedente, e per ciò stesso così temuta dalla dirigenza cinese. La rinascita religiosa in Cina potrebbe infatti rendere il Dalai Lama un naturale riferimento per i buddhisti cinesi, un riferimento che però, per la stessa storia da cui discende, nonché per la sua vasta popolarità mondiale, soprattutto in Occidente, e infine per i legami ricostituiti con l’India, si pone ben al di là di quel nazionalismo entro cui l’attuale dirigenza vorrebbe incanalare il tumultuoso sviluppo della Cina.

Questa sarebbe a ben vedere la grande occasione per inserire la Cina moderna a pieno titolo nel contesto mondiale odierno, non solo come temuta potenza economica e politica, ma come grande civiltà portatrice di valori universali; ma ciò evidentemente richiede un passaggio di enorme rilievo, cioè, come si diceva, la libertà religiosa come fondamento di quella politica. Il che a sua volta implicherebbe la capacità di fare i conti con la propria storia in modo da ricucire il rapporto con la tradizione. Poiché la visione che la Cina ha oggi di se stessa è interdipendente con la visione che l’Occidente le rimanda, queste considerazioni, e in particolare quelle che seguono, vogliono essere un contributo in tal senso.

La forma estrema in cui la secolarizzazione è avvenuta in Cina, cioè quella dell’ideologia comunista, non può intendersi soltanto come l’inserimento di un elemento estraneo nella cultura cinese. È ben vero che l’impulso fu dato da intellettuali che guardavano all’Occidente, ma la Cina è sempre stata capace, almeno fin dai tempi dell’arrivo del buddhismo, di accogliere apporti esterni ed elaborarli in forma originale.
statua_buddha.jpg È lecito quindi pensare che il comunismo cinese non sia stato solo copia di quello occidentale; e che, se quest’ultimo ha tratto gran parte della sua forza dal fatto di essere secolarizzazione di un substrato cristiano, quello cinese e in genere dell’Estremo Oriente, dalla Corea al Vietnam, ha le sue radici in un processo analogo, in cui decisivo è proprio l’elemento buddhista.

Bisogna infatti ricordare che l’apporto più rilevante che il buddhismo ha recato all’etica delle civiltà asiatiche consiste senz’altro in un senso universale della comunità, analogo sotto certi aspetti a quello cristiano ma se possibile ancora più radicale, in quanto fondato sull’idea della non esistenza sostanziale dell’io. Quest’idea, incontrandosi con un senso della gerarchia sociale tipicamente confuciana, spiega la grande forza di coesione delle società dell’Estremo Oriente, la propensione dell’individuo a sacrificarsi per il bene della collettività da cui società come quella cinese e giapponese traggono ancor oggi la loro forza.
Ma il radicalismo della visione buddhista si lascia moderare da altri elementi perché il suo ambito di espressione è propriamente la vita monacale, a cui il resto della società partecipa solo indirettamente; mentre sarebbe rovinoso tradotto in termini di dottrina sociale. È dunque pensabile che il carattere estremo rappresentato dal comunismo asiatico, dalla Cina alla Cambogia, sia frutto della traduzione in termini sociali di un atteggiamento che ha nell’esperienza religiosa il suo contesto appropriato: come se l’utopia della costruzione del paradiso in terra, quale fu tentata in Occidente, avesse trovato corrispettivo in quella radicale distruzione di ogni ordine costituito che fu operata in Oriente. Il maoismo, sotto questo aspetto, fu molto più che una variante eretica del marxismo: fu la secolarizzazione di una mistica, tradottasi nella forma più estrema di nichilismo.

Si può osservare che l’esperienza del comunismo, in Cina e nell’intera Asia, è un fenomeno ormai lasciato alle spalle, permanendo come puro involucro di un capitalismo aggressivo; ma la questione non è così semplice. È tipico innanzitutto delle società post-comuniste lasciarsi alle spalle i loro traumi senza averli elaborati, a differenza di quelle post-fasciste, anche perché da quei traumi traggono tuttora alimento. Può essere evidente infatti che lo sradicamento senza pari che una rivoluzione comunista pone in atto determina condizioni ottimali per la modernizzazione, avendo compiuto un azzeramento del passato. Ma una società che si concepisca in ascesa, con la necessità di formare nuovi gruppi dirigenti, deve confrontarsi con il compito dell’elaborazione di una coscienza culturale più ampia, in cui le diverse fasi del suo passato siano ricompresse. Il ritorno della religione oggi in corso su scala mondiale svolge indubbiamente molteplici funzioni, ma non ultima è una simile elaborazione.

In un tempo come il nostro negli stessi anni è dato assistere al compiersi di fasi diverse della storia umana nei diversi contesti.
Mentre l’abbandono della religione tuttora avviene per vaste masse di persone in conseguenza dei cambiamenti in atto, come il trasferimento dall’ambiente rurale a quello urbano, il compiersi di tali cambiamenti induce altrove la rinascita dell’istanza religiosa. Tra i due estremi troviamo altre posizioni, come il volgersi alla religione per affrontare i cambiamenti, oppure tutte le possibili forme di conciliazione tra passato e presente. Troviamo soprattutto il bisogno di uscire dagli schemi, di cercare nuove soluzioni per il futuro.
di Claudio Torrero
da Nuovo Progetto agosto-settembre 2008
(versione integrale)
[fine]         [prima parte: ASIA: tra passato e futuro]



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BIRMANIA: l’insegnamento dei monaci

 

 

 

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