Il silenzio dell'antico capoluogo

Pubblicato il 08-05-2014

di Riccardo Franchi

I vigili del fuoco in azione a l'Aquila

Giunto dalla Toscana per gli interventi di messa in sicurezza degli immobili danneggiati dal terremoto dello scorso aprile, Riccardo si aggira nelle zone abbandonate della città. Il silenzio che regna nelle vie deserte amplifica emozioni e riflessioni.
di Riccardo Franchi

 

L’Aquila, 27 luglio 2009. Resti di un appartamento
A distanza di quasi quattro mesi dal sisma, ancora una volta in Abruzzo a lavorare.
Giornate caldissime alternate a notti fredde in tenda, nuovi compagni di lavoro, l’Italia delle regioni più lontane e più diverse che si incontra, solidarizza, condivide la fatica del lavoro e le soddisfazioni del risultato sotto i turchesi cieli abruzzesi. In silenzio. È ciò che domina tra un battere e l’altro dei nostri martelli, tra una parola in toscano e una battuta in sardo, tra un dialetto stretto pugliese e il racconto di un giovane aquilano accompagnato a recuperare i propri beni in una casa non più sua che lascia ai suoi occhi solo il ricordo di una facciata.

Dentro è il caos più assoluto. “In questa strada alcune persone non ce l’hanno fatta. Quella porta là, mio fratello a suon di calci è riuscito ad aprirla per fare uscire due ragazze.” Silenzio. Si lavora con silenzio ossequioso in un anfiteatro di muri pericolanti e finestre tendate che ti osservano, fermi immagine di un dramma ancora vivo. È il silenzio impressionante di tutta una grande città, antico capoluogo di regione. Immagino per un attimo sia la mia Firenze mortalmente ferita.

In un momento di pausa faccio due passi lungo le strade vuote, tra le facciate più o meno colorate, in quello che appare non più un vitale centro abitato con i cortei dei clacson, le file alla Posta, i mercati rionali, le passeggiate serali, i concerti musicali, piuttosto un esteso deserto monumento funebre. Qualche soffio di vento. Mi perdo tra i vicoli. Case vecchie e palazzine più nuove, il solito destino. Le osservo, le scruto. Un po’ rischiando mi addentro all’interno e cerco di capire.

Dalle trombe buie delle scale discendono come onde ostili macerie, spuntano fuori dalle porte e dalle finestre, afferrano mobili e pareti. Dai tetti crollati il sole filtra e illumina qua e là tra il grigiore delle rovine vestiti, quadri, fotografie, libri, utensili di vita quotidiana, orsetti colorati. Riaffiorano a raccontare la furia impressionante della terra nell’oscurità di una notte d’aprile, le grida di chi colto nel sonno tenta di fuggire fuori in strada in cerca disperata di salvezza.

Riprendo lentamente a camminare. Sotto le suole degli scarponi solo il rumore dei detriti e dei vetri infranti, ricurvi ai miei lati gli alti palazzi fratturati che guardano sulla strada con fare minaccioso e sinistro. Le persiane abbassate sulle finestre e le porte condominiali rimaste aperte, spalancate sulle vie di fuga. Procedo pensieroso al centro del viale. La Casa dello studente, un’officina, una banca, il duomo ma anche un grande albergo con le bandiere colorate ancora sventolanti, incuranti della tragica realtà. Albergo ripiegato su se stesso.

Vicolo Sant'EusanioDietro un vicolo appoggiata ad un muro una bicicletta, poco più in là un’auto sepolta, frammenti di una vita improvvisamente interrotta. Panni ancora stesi sui balconi, vasi di fiori essiccati, giardini e siepi riarse al sole. E una processione di gatti abbandonati lungo una scia maleodorante di cibi avariati proveniente dai frigoriferi. E ancora macerie, a distanza di quattro mesi forse ancora troppe: tra gli stretti vicoli, nei viali principali in cumuli ordinati ai lati dei marciapiedi e all’interno dei tanti condomini, focolari di colpo scomparsi.

Giungo fino alla parte opposta della città. Mi fermo alla porta d’ingresso a parlare un attimo con i due alpini di guardia. Il tempo di un caffè. “Gli sciacalli sanno come entrare di notte in città. Non è certo la nostra presenza a scoraggiarli.” Affranto faccio ritorno al cantiere.

Su per una salita davanti ad una casa fortemente danneggiata un giovane uomo e sua madre, una vecchia signora con il caschetto giallo in capo, lacrimante attende. Dentro, tra i solai crollati e quelli in procinto di farlo, alcuni colleghi liguri sfidano la sorte alla ricerca di un cassettone. Da una finestra mi passano i cassetti, li svuoto in un sacchetto di plastica e lo porgo al figlio. L’incredula anziana, stringendo tra i suoi pugni tremolanti i centrini da lei ricamati, ci ringrazia, mi abbraccia forte, scoppia in un pianto liberatorio di gioia. Sul mio viso rimane calda una sua lacrima e improvvisamente comincio a capire il valore di tante piccole cose.

Riccardo Franchi

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