Cambiare si può

Pubblicato il 20-05-2020

di Monica Canalis

La politica alla prova dei fatti: una questione di responsabilità.

 

Al Sermig abbiamo adottato un metodo per fare di ogni esperienza un’occasione di crescita e formazione: alla fine dei nostri incontri ci chiediamo che cosa abbiamo imparato, che cosa ci è rimasto dentro, per farne tesoro e ripartire con un insegnamento in più. Questo metodo può essere applicato anche alle esperienze collettive. Che cosa può imparare e progettare la politica nazionale ed europea dalla più grande epidemia dell’ultimo secolo?

Il rischio è che lo shock della perdita di vite umane (quasi 30.000 solo in Italia), l’isolamento e l’allentamento dei legami sociali ci facciano entrare in una sorta di annichilimento, una depressione collettiva, uniti alla sensazione che nulla sarà più come prima, in economia come nella vita sociale. Penso che si debba rovesciare il ragionamento: il trauma che stiamo vivendo può proprio essere l’occasione per fare in modo che le cose non siano più come prima. Il virus ha portato tanto dolore e ha impoverito tante persone, ma ci ha anche aperto gli occhi sulle storture del nostro modello di sviluppo e sulle vere priorità delle politiche pubbliche.

 

La sanità, innanzitutto. Negli ultimi vent’anni in Italia è stato poco per volta eroso il Sistema Sanitario Nazionale, riducendo i posti letto e il personale, trascurando la medicina di territorio e dimenticando di aggiornare il Piano per le pandemie. Anche la riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione (quello dedicato a Regioni, Province e Comuni) ha mostrato i suoi limiti, con la nascita di 21 modelli sanitari regionali, molto diversi l’uno dall’altro. La sanità dovrà essere uno dei capisaldi della ripresa e dovrà essere intesa non tanto come una spesa, quanto come un investimento produttivo. Salute e benessere dei cittadini si riflettono infatti sulla produttività lavorativa e sulla coesione sociale, così come le grandi infrastrutture sanitarie possono rappresentare un volano di sviluppo del territorio e di creazione di lavoro attraverso le attività di ricerca e di didattica.

 

L’epidemia di Covid 19 ci insegna che la sanità è davvero un servizio essenziale, che può bloccare tutte le altre attività se non funziona bene e se non è capillarmente ed equamente diffusa. Per questo sarà importante ripristinare alti livelli di spesa pubblica sanitaria, rivedere l’autonomia regionale in materia di sanità, evitare lo sbilanciamento sulla sanità privata (che, a differenza di quella convenzionata non profit, è orientata meramente al profitto), potenziare la telemedicina e la digitalizzazione delle procedure (dalla ricetta dematerializzata in poi) per raggiungere anche le aree interne più remote, rivalutare e favorire le cure domiciliari per anziani e persone disabili e contemporaneamente valorizzare (e regolarizzare) più di quanto si è fatto finora le assistenti familiari, le badanti, le colf e gli operatori socio sanitari, riformare gli standards di servizio delle Rsa (Residenze Sanitarie Assistite) per garantire la massima dignità anche a chi è più vulnerabile. Un’agenda ampia che può avere un’accelerazione dopo quello che abbiamo vissuto.

In un’epidemia ci ammaliamo e guariamo insieme, il mio destino è legato al tuo, se ti ammali tu posso ammalarmi anch’io, se tu segui le regole non proteggi solo te stesso ma anche me. La patologia non è individuale, ma collettiva, direi quasi comunitaria e ci porta ad avere a cuore le sorti del prossimo, dei vicini di casa, dei compagni di scuola, dei colleghi, perché dalla loro sorte può dipendere anche la nostra. Siamo insieme su questa barca, come ci ha ricordato il brano di Vangelo scelto da Papa Francesco per la preghiera solitaria in Piazza San Pietro. Qualcuno ha usato la metafora della guerra per descrivere questa condivisione della lotta, ma la guerra contrappone i combattenti mentre in questa situazione dobbiamo imparare a unire gli sforzi, a coordinarci e aderire alla stessa causa. Tutti, tutta l’umanità. La globalizzazione ha velocizzato la diffusione del virus, ma sta velocizzando anche la condivisione delle scoperte scientifiche, dei protocolli di cura e delle sperimentazioni del vaccino. Le guerre hanno diviso l’umanità, mentre questa epidemia, seppur a prezzo di vite umane, ci sta unendo contro un nemico comune che non ha bandiera politica.

 

Questo, a fatica, sta accadendo anche in Europa. Nelle prime settimane gli Stati membri non hanno mostrato uno spirito di solidarietà.

Ciascuno ha tenuto per sé le mascherine e gli altri Dispositivi di Protezione Individuale, il Meccanismo Europeo di Protezione Civile non ha funzionato, molti paesi hanno fatto resistenza a nuove misure finanziarie condivise. Poi, a poco a poco, si è attivato un processo condiviso, di cui non conosciamo ancora l’esito definitivo e che potrebbe anche portare a un rafforzamento dell’Europa: 1120 miliardi di euro dalla Banca Centrale Europea, 200 miliardi di euro per le imprese dalla Banca Europea per gli Investimenti, 100 miliardi di euro per SURE, una sorta di cassa integrazione europea, una quota di “Meccanismo Europeo di Stabilità” dedicata, senza condizionalità, esclusivamente alle spese sanitarie (36 miliardi per l’Italia), fino all’intervento decisivo dei Recovery Bonds per le spese di ricostruzione. Il coronavirus può essere la tomba o il rilancio dell’Unione Europea. Se gli Stati membri decideranno di condividere rischi, debiti e investimenti per la ricostruzione, l’Europa ne uscirà più forte di prima. Se, invece, continueranno a porre veti e a far prevalere la diffidenza in nome di una controproducente sovranità nazionale, il sogno europeo entrerà in un declino probabilmente irreversibile.

 

Questo virus deriva da animali selvatici il cui ecosistema è stato minacciato dall’uomo e si è diffuso a causa di sistemi sanitari non adeguati e impreparati. Anche paesi molto ricchi come gli Stati Uniti e il Regno Unito stanno riportando molte vittime. La politica è quindi chiamata ad ideare un modello di sviluppo rispettoso dell’ambiente e degli equilibri sociali. Un autentico sviluppo umano che realizzi una sostenibilità ambientale ed umana e non miri solo al profitto. «Il vero sviluppo non può consistere nella semplice accumulazione di ricchezza e nella maggiore disponibilità dei beni e servizi, se ciò si ottiene senza la dovuta considerazione per le dimensioni sociali, culturali e spirituali dell’essere umano» (Enciclica “Sollicitudo rei socialis» del 1987). Nel confronto storico tra statalismo e liberismo, tra socialismo e capitalismo, tra rinuncia alle libertà e alle responsabilità dello stato assistenziale e illusione libertaria della società dei consumi, l’epidemia deve stimolare la formulazione di un modello terzo, un capitalismo umano, un’economia sociale, che rifugga il puro materialismo e ponga al centro delle scelte politiche ed economiche la dignità umana. Alleati di questa strategia saranno i corpi intermedi. «La socialità dell’uomo non si esaurisce nello Stato, ma si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia fino ai gruppi economici, sociali, politici e culturali, che hanno la loro propria autonomia. È la soggettività della società, che si affianca alla soggettività dell’individuo» (Enciclica “Centesimus Annus” del 1991). Usciremo migliori da questa crisi mondiale soltanto se modificheremo il nostro modello di sviluppo, investendo sulle politiche sociali e sanitarie, rispettando i diritti umani e l’ambiente, rafforzando lo spirito comunitario e la cooperazione internazionale.

 

Come ci ricorda Stefano Zamagni, nel nuovo mondo del dopovirus il nemico numero uno sarà il liberismo e bisognerà imparare a distinguere tra capitalismo ed economia di mercato, riconoscendo che non è necessario accettare il primo per salvare la seconda e che l’ordine sociale è frutto dell’interazione tra stato, mercato e società civile.

Quello che è certo è che l’epidemia è uno spartiacque e nulla sarà più come prima. La politica avrà la responsabilità di interpretare questo cambiamento a favore del bene comune, con molta creatività e coraggio.

Come diceva lo statista ceco Vaclav Havel. «La politica non può essere solo l’arte del possibile, ossia della speculazione, del calcolo, dell’intrigo, degli accordi segreti e dei raggiri utilitaristici, ma piuttosto deve essere l’arte dell’impossibile, cioè l’arte di rendere migliori se stessi e il mondo».

 

Vedi il focus Riflessioni in tempo di Covid 19

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