Nato due volte

Pubblicato il 02-08-2023

di Matteo Spicuglia

«Ho ricordi indelebili. È stato uno shock, un pugno nello stomaco, un nodo alla gola». Annibale Crosignani oggi ha 90 anni. Nel 1968 era un giovane psichiatra che varcava per la prima volta le porte dell’ex manicomio femminile di via Giulio a Torino. Uno degli inferni nella città, luogo di separazione del disagio da tutto il resto: fuori la vita normale, dentro un limbo di diritti sospesi, dove la dignità, ricorda Crosignani, «veniva profanata». È commovente vedere l’intensità di ricordi così vivi anche dopo 50 anni. «Mi trovai di fronte a un reparto con 160 donne abbandonate. Vivevano in un camerone unico. Le più fortunate lavoravano nella lavanderia e nella stireria, tutte le altre passavano il tempo ad aspettare qualcosa che non arrivava mai».

Con un paradosso. Non tutte le internate avevano problemi mentali. Più di un terzo erano ragazze giovanissime, con un passato difficile o di povertà: c’è chi era scappata di casa, chi era entrata in rotta con la famiglia, chi da un orfanotrofio era passata direttamente al manicomio. Nessuna speranza. Tra quelle pareti il tema non era la cura, ma la contenzione e la separazione, con i medici ridotti al ruolo di burocrati. «Dovevamo mettere la firma, avallare quello che la società chiedeva, ma io non avevo alcuna intenzione di lavorare così. Arrivavo dalla clinica universitaria, ero preparato, ma soprattutto avevo intuito che in quel luogo c’era un mondo da scoprire».

La rivoluzione di Annibale Crosignani partì da questa scintilla. Parlare con le malate non era prudente? Lui lo fece. Ascoltarle tempo perso? Non per lui. Rischioso mettersi contro le regole? Semplicemente necessario.

Come quella volta, con una paziente sulla sessantina, ma con la mente e il cuore da bambina. «Quella donna viveva per la sua bambola di ceramica. Un giorno durante un litigio, un’altra ammalata la prese, la buttò per terra e la mandò in frantumi. La donna era disperata perché aveva perso il suo tutto. Urlava, piangeva, non si dava pace, nessuno riusciva a calmarla. Mi chiamarono d’urgenza e decisi di prendere la situazione di petto. Mi avvicinai, la guardai e le feci una promessa: "Se smetti di piangere, domani ti porto un’altra bambola". Lei mi credette». Il professor Crosignani passò il pomeriggio a cercare una bambola uguale e alla fine la trovò. Il giorno dopo la portò alla sua paziente. «Lei si calmò e mi abbracciò. Poi con uno sguardo luminoso mi disse: “Ma tu adesso giocheresti con me?”Io non ci pensai due volte. Ci sedemmo per terra come bambini e giocammo. Le infermiere vedendomi in quella situazione mi presero per matto».

Una storia emblematica che riportò al centro il valore dell’empatia e della vicinanza che cura. La strada era segnata, il muro dell’incomunicabilità abbattuto, un nuovo metodo portato finalmente alla luce. Iniziò così una battaglia di civiltà che gradualmente condusse alla chiusura dei manicomi, quello di via Giulio già nel 1973, cinque anni prima della legge Basaglia, tra mille incompiutezze un punto di non ritorno.

Per Crosignani, anche una lezione di vita definitiva. «Quelle donne mi hanno permesso di conoscere l’umanità e il mondo. Pur nella loro fragilità, avevano qualità rare: erano più sincere e più autentiche delle persone cosiddette “normali”. Mi ritrovai a custodire dei tesori imparando il senso della vita, del limite, il fatto che non siamo onnipotenti». Una vera rinascita! Lo sguardo azzurro di Crosignani si fa piccolo, gli occhi diventano lucidi, ma la voce resta ferma: «Come psichiatra sono rinato in quel momento. È come se tutte quelle donne mi avessero partorito una seconda volta».


Matteo Spicuglia
NP maggio 2023

 

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