Non basta essere polacchi

Pubblicato il 14-08-2012

di Elena Goisis

di Elena Goisis - Mia madre, donna acuta ed accorta, ha sempre avuto ben chiara la distinzione tra coloro che meritavano la sua fiducia e coloro che non la meritavano. Spesso il suo fiuto colpiva nel segno. Ma un giorno, con mio grande stupore, si lasciò quasi ingannare. Era sola in casa e suonò alla porta un giovane alto e biondo dall’italiano stentato, che si qualificò come seminarista polacco.

Era l’epoca di Solidarnosc e Wojtyla, e l’aggettivo polacco aveva un che di magico. Sapeva di duro e puro, di gente che aveva mantenuto intatti i propri ideali nonostante un regime nazista e uno comunista. Così, mia madre fece entrare in casa il sedicente seminarista, che le snocciolò una storia la cui conclusione era la richiesta di soldi. Nel frattempo, per fortuna, il proverbiale fiuto di mia madre si era risvegliato abbastanza da liquidare l’impostore, il quale grazie a Dio non passò alle maniere forti. Ma da quel giorno la qualifica di polacco perse agli occhi di mia madre tutto il suo credito, diventando soggetta a verifica come ogni altra cosa. Perché questa lunga premessa? Per capire in che modo numerose altre qualifiche hanno ormai fatto la stessa fine. Credere vuol dire innanzitutto fidarsi. Può fidarsi uno che entra in contatto con me cristiano? E bastano le qualifiche democratico o della libertà perché siano davvero tali dei partiti che danno ancora poco spazio ai giovani? D’altra parte, la categoria di giovane non è più garanzia di cambiamento. Conosco giovani che vivono ermeticamente sigillati tra le cuffiette dell’ipod e lo schermo del pc (o dell’ipad), tristemente timorosi di ogni novità più di un anziano, che fatica ormai ad uscire di casa ma magari qualche visita a sorpresa la riceverebbe volentieri.
Dunque, bando alle etichette. Siamo tutti soggetti a verifica. L’esito positivo non è scontato.

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