L'ipocrisia del fare

Pubblicato il 16-08-2020

di Cesare Falletti

Mi chiedo se il lungo isolamento che ci ha afferrato ha spento i nostri cervelli, visto che l’uomo è un essere di relazione. Spero, invece, che li abbia affinati e resi più capaci di cogliere l’essenziale, visto che ci siamo trovati tutti davanti al Tempo. Sì, il tempo che ci sfuggiva, che non avevamo, che perdevamo, si è dato a noi nella sua lentezza, nel suo scorrere pacato, nella libertà che ha ritrovato di fronte ai nugoli di impegni, appuntamenti e doveri più o meno reali, progetti che ci legavano mani e piedi (e testa) senza lasciarci neanche la possibilità di pensarli davvero. Tutto si è inflessibilmente fermato. No, non abbiamo perso l’essenziale: essere capaci di vivere, magari lottando con nuovi avversari invece che con le solite battaglie degradanti, fatte di prepotenza, volontà di prevalere e avere o apparire.

All’inizio si aspettava che passasse e che tutto tornasse come prima. Poi qualcosa è cambiato: non sappiamo quando sarà veramente finito e i più saggi fra noi non sperano più che tutto torni come prima. Ma siamo davanti al grande nebbione oscuro del: come? Occorrerà ricostruire la vita e tutto ciò che essa comporta personalmente e nelle relazioni. Abbiamo imparato a vivere senza gli altri, almeno fisicamente e a vivere nuovi modi di relazione, a partire dalla scuola, fino al lavoro, ma scoperto anche che nelle povertà che sono legate al nostro essere creature non possiamo fare a meno degli altri e addirittura degli altri che rischiano la loro vita per noi. Tutto il campo sanitario e anche tanti sacerdoti ce l’hanno mostrato con colori forti e drammatici, ma non solo. Tutti hanno bisogno di un incontro fisico, i bambini particolarmente. E tutti ci siamo trovati bisognosi di “toccare” i nostri simili, senza poterlo fare.

Quante cose non possiamo fare, noi che abbiamo idolatrato il fare! Forse è l’ora di convertire il nostro sguardo, il nostro pensiero, il nostro cuore. Forse è l’ora di accorgerci che nel bisogno, chiamato dovere, di “fare” c’è dell’ipocrisia, come ha detto il papa. Sappiamo colorare il nostro bisogno di protagonismo, di vanità, di apparire con dei colori magnifici di bontà e di iniziative altruistiche.
È ora, nella solitudine delle nostre nuove prigioni, di guardare la verità e di ritrovare una coerenza profonda fra il nostro mostrarci e il nostro dire, in particolare dire il Vangelo. La frase del papa parla di «tempo della coerenza: o siamo coerenti o perdiamo tutto».
Ecco a cosa può servirci il tempo, che abbiamo riscoperto come una cosa che ci è data, e non come un dispettoso monello che ci sfugge: prendere coscienza dell’urgenza della coerenza e della realtà delle nostre incoerenze.
È faticoso, doloroso? Certo! Ma è urgente per poter vivere oltre il confinamento e non mettendolo come della polvere sotto il tappeto. “Oltre” vuol dire: avendo fatto un passo avanti nella crescita della nostra umanità, avendo preso coscienza di noi stessi e non solo nell’illusione dello sguardo degli altri.

Anche se la tecnologia di oggi non ci ha chiuso in una solitudine silenziosa, né in una mancanza di contatti, anche se abbiamo potuto vedere gli occhi degli altri, qualcosa sfuggiva, non c’era, la vita non era integra. Ci siamo trovati continuamente rispediti a una verità altra da quella che avevamo cercato di esprimere: non voglio dire che era tutto volutamente falso, ma la verità della persona ha bisogno non solo di parole, gesti, immagini, ma di presenza viva, di quel fluido che passa da una persona all’altra senza doverlo inventare e che passa anche quando vogliamo nasconderlo.
Questo strano “digiuno” ci spoglia e ci libera, per farci essere ciò che siamo. Ce la faremo, poi, quando tutto sarà passato, a riconoscere che malgrado le ferite, i lutti e le sofferenze, il Signore non ci ha fatto mancare il dono della sua Vita?

Cesare Falletti
NP maggio 2020

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