BOLIVIA: con i caschi bianchi

Pubblicato il 31-08-2009

di sandro


Marco, 19 anni ben portati, ha scelto di spendere un anno di servizio civile in Bolivia con il progetto “Caschi bianchi” e ha incontrato nel carcere di La Paz un microcosmo inconsueto di umanità.

di Marco Mossolin


Il desiderio forte di mettere in discussione le mie certezze, di incontrarmi realmente con l'altro e di mettermi al suo servizio, la convinzione che non basta gridare pace alle manifestazioni perché essa si realizzi, ma che bisogna mettersi personalmente in gioco ogni giorno per costruirla, una ricerca spirituale cominciata un paio d'anni fa all'Arsenale della Pace - grazie anche al mio gruppo Scout - e un po' di voglia di avventura, mi hanno convinto un anno fa a lasciare l'università appena cominciata e tutto il mondo in cui ho vissuto per 19 anni, per partecipare a un progetto di servizio civile all'estero come casco bianco con la comunità Papa Giovanni XXIII, che mi ha portato per nove mesi a La Paz, capitale della Bolivia. Nonostante siano già cinque mesi che vivo qui non mi sono ancora abituato ai 3700 metri di altezza e alla mancanza di ossigeno, che trasformano ogni minimo sforzo in una grande fatica che ti lascia senza fiato e con il cuore in gola.
Il progetto prevedeva di lavorare in un centro di recupero per alcolisti che qui rappresentano una delle maggiori piaghe sociali.
La mancanza di lavoro e quindi di speranze per il futuro, fa rifugiare tanti uomini, giovani e non, nell'alcool che qui viene assunto specialmente come alcool puro.
Molti di loro sono abbandonati dalle famiglie e finiscono in strada a sniffare colle e solventi e con queste sostanze finiscono per bruciarsi definitivamente il cervello e quindi anche le poche speranze per il futuro.
Le persone che chiedono di essere accolte in questo centro di recupero devono farlo di propria volontà e una volta entrati seguono un percorso terapeutico di circa due anni, imparano qualche lavoro e soprattutto cercano di ritrovare un senso per la loro vita.
Oltre a questo una parte sostanziale del nostro servizio di caschi bianchi è la condivisione della vita delle case-famiglia della comunità. In queste case, a bambini abbandonati, disabili o con altri problemi per cui vengono esclusi dalla società, viene assegnata una famiglia e quindi l'opportunità di una vita normale e dignitosa, come spetta di diritto ad ogni essere umano.
Il sabato sera, poi, con un gruppo di giovani portiamo del pane e del caffé caldo ai ragazzi di strada, che oltre al cibo ci chiedono soprattutto di essere considerati, di essere ascoltati e amati.
Ci raccontano storie assurde, con le lacrime agli occhi, storie di violenza ma anche di amore e poi, quando tornano nei loro ripari sotto i ponti per passare la notte, non smettono di ringraziarci. Due mattine a settimana, invece, il mio servizio si svolge nel carcere di San Pedro dove ci sono circa 100 bambini che vivono da reclusi con i rispettivi padri.

Facciamo giocare i bambini, li aiutiamo nei compiti scolastici e organizziamo per loro varie attività ricreative, come per esempio la realizzazione di un murales su una delle pareti interne del carcere.
Il carcere di San Pedro è un carcere particolare, totalmente diverso dai tradizionali carceri ai quali siamo abituati in Italia e vale la pena descriverlo.
Innanzitutto colpisce il fatto che le guardie se ne stanno fuori dal cancello principale, perché dentro tutto è completamente autogestito dai carcerati. A chi entra non è assegnata nessuna cella, ma in base alle sue finanze può decidere se comprarla o affittarla in uno dei quartieri in cui è diviso il carcere. Ogni quartiere ha le proprie caratteristiche, le proprie leggi, il proprio amministratore eletto democraticamente dai carcerati ed è più o meno ricco in base agli ospiti che lo popolano.

Inoltre, ognuno può decidere di aprire nella propria cella qualsiasi tipo di attività. Così si incontrano parrucchieri, fotografi, bar e ristoranti, telefoni pubblici, sale da biliardo, saune e chi più ne ha più ne metta. C'è persino un campionato di calcio interno tra i vari quartieri. Chi vuole pregare può scegliere tra una chiesa cattolica e tre chiese protestanti. Molti carcerati vivono dentro il carcere assieme alle loro mogli e ai loro figli, che naturalmente possono entrare e uscire a loro piacimento. Non è nemmeno raro che nascano bambini in carcere. Insomma è una piccola città con tutto ciò che serve e quasi del tutto autonoma.
La maggioranza degli internati è dentro per reati legati al narcotraffico, specialmente di cocaina, prodotto trainante dell'economia boliviana.
Chiusa questa parentesi del carcere, continuo parlando della nostra figura di Caschi bianchi che dovrebbe rappresentare la scelta nonviolenta di risoluzione dei conflitti armati e non. Per questo stiamo cominciando anche a prendere contatto con alcuni collegi della città per organizzare con gli studenti dei laboratori sulla nonviolenza e sull'obiezione di coscienza.
Purtroppo il poco tempo di permanenza all'estero limiterà anche i risultati in termini di reali benefici per la popolazione locale, mentre per quanto riguarda i benefici a livello personale, sono già molti.
Quest'esperienza mi sta facendo crescere giorno dopo giorno sia sul lato umano sia sul lato spirituale, sto conoscendo e toccando con mano molte realtà di miseria e ingiustizia, prima conosciute solo attraverso libri, giornali e televisione e ricevo quotidianamente lezioni di umiltà e di carità da persone così povere che non hanno che l'amore da donare.


Per informazioni sui caschi bianchi della Assoc. Comunità Papa Giovanni XXIII ospiti.peacelink.it/apg23

Marco Mossolin
da Nuovo Progetto maggio 06




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