Carcere, l’altra faccia della medaglia

Pubblicato il 29-01-2010

di Gianni Giletti

I penitenziari del nostro Paese stanno passando un brutto momento. L’analisi del cappellano della casa circondariale San Pio X di Vicenza mette in evidenza gli aspetti umani della vita del detenuto. Non solo il sovraffollamento, ma anche il peso della propria storia che porta a volte a gesti estremi.

di Agostino Zenere

 

Perché ci si toglie la vita in carcere ? Perché il pensiero di farsi del male (autolesionismo), o peggio di farla finita, è così presente nella mente di ogni persona reclusa?
Tenterò di presentare brevemente i motivi della sofferenza da privazione della libertà senza escludere il fatto che molte persone arrivano in carcere portando con sé fragilità e debolezze che le espongono alla depressione, ai pensieri di fallimento oltre che agli effetti del peccato ed alla mancanza di riconciliazione.
Il detenuto è anzitutto una persona che soffre per la privazione della libertà. Chi studia da un punto di vista psicologico l’esperienza detentiva la paragona per intensità alla sofferenza della perdita di un genitore. L’afflizione psicologica si sfoga sul corpo ed è causa di una serie di mali fisici quali, ad esempio, alterazioni dell’apparato sensoriale, perdita di capelli, dermatiti allergiche, nevralgie dentali e disfunzioni gastrointestinali.
La persona detenuta non ha più una vita privata. Nella cella si vive assieme ad altre persone ed, in spazi ristretti, si trascorrono almeno venti ore al giorno. I compagni di cella non si scelgono, per cui possono trovarsi insieme persone di varie nazionalità, con conseguenti problemi legati alla diversità di lingua, religione, cultura e abitudini: il sovraffollamento non permette di avere attenzioni al riguardo. Non importa che i compagni di cella siano tossicodipendenti, malati, sporchi: con loro bisogna andare d’accordo, dividere il poco spazio a disposizione, prestarsi le cose, pulire la stanza, avere in comune i servizi igienici e il piccolo televisore. In cella ogni detenuto ha una branda con lenzuola, cuscino e coperta, un armadietto per riporre pochi ed essenziali indumenti, tutto il resto va richiesto: una pastiglia per il mal di testa, una penna per scrivere, una busta per inviare una lettera, un libro. Ogni cosa deve essere richiesta alla direzione con un apposito modulo chiamato ‘domandina’, la risposta arriva dopo alcuni giorni. Tutto è rallentato, sottoposto a restrizioni e a innumerevoli regole. Il carcere è un ambiente sempre sovraffollato e gli agenti in servizio hanno il compito di sorvegliare e garantire la sicurezza. Oltre a non avere il tempo per ascoltare, spiegare, dare risposte esaurienti alle persone recluse, gli agenti non hanno una formazione adatta a compiere questo servizio, svolto per lo più da poche figure istituzionali come il medico e l’infermiere, lo psicologo e l’educatore, il cappellano e un certo numero di assistenti volontari. La persona reclusa soffre per la condanna morale che il carcere comporta a livello personale e sociale. Egli considera le conseguenze del suo comportamento: rimarrà per tutta la vita un ex-carcerato, una persona che ha sbagliato e che non è più meritevole di fiducia. Se straniero sa che molto facilmente perderà il permesso di soggiorno.

carcere.jpgIl detenuto è una persona con forti sensi e complessi di colpa che cerca di mascherare con un mare di ‘bugie’, che tali non sono veramente, in quanto descrivono il tentativo di leggere a suo favore una realtà difficile e una situazione avversa. A colloquio con gli assistenti volontari e gli operatori, il detenuto cerca di coprire come può la sua vita sbagliata, i suoi errori. Cerca di proporsi migliore di quello che realmente è, come fa ciascuno di noi nelle relazioni di tutti i giorni. C’è anche chi, nella calma e nel calore di un colloquio piange disperatamente, e forse lo fanno un po’ tutti, ma di nascosto, perché il carcere non ammette debolezze e sentimenti. Certo non sono tutti pianti sinceri, secondo i nostri criteri di pentimento e redenzione, ma esprimono un dolore vero e profondo capace di ingenerare comportamenti di autolesionismo e di suicidio. Le persone recluse sono uomini come noi con desideri sani di contare qualcosa, di non aver distrutto tutto, di aver ancora la possibilità di ricominciare.

Il detenuto, anche se non lo dice, dubita di poter cambiare, perché spesso ha già sbagliato innumerevoli volte; perché non sa riconoscere le cause del suo comportamento e spesso non ha gli strumenti culturali e morali per leggere criticamente la storia della propria vita. La persona ristretta tende ad attribuire agli altri la sua sventura e a non riconoscere le proprie colpe. Possiamo affermare che il problema di queste persone non sia tanto la detenzione, ma la storia, la vita e l’ambiente che stanno all’origine del comportamento che li ha portati in carcere.

 

Di Agostino Zenere

 

 

 

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok