CARCERE: non spegniamo la speranza

Pubblicato il 31-08-2009

di Vincenzo Andraous


Il presidente della commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli, ha presentato un disegno di legge che ridimensiona sensibilmente i benefici e gli sconti di pena per i detenuti previsti dalla Legge Gozzini.

di Vincenzo Andraous


Molti hanno detto che per conoscere le fondamenta e i caratteri di una democrazia, occorre indagare anzitutto il sistema penitenziario come la misura più indicativa della civiltà di un popolo. Da detenuto ho avuto la fortuna di conoscere un grande uomo e un grande cardinale, che mi ha mostrato in pochi minuti come la sola ritorsione non solo è contraddetta dall’etica evangelica, ma non porta i risultati desiderati.
Da qualche tempo sul carcere italiano è calato un silenzio refrattario all’impegno dell’ascolto, una indifferenza che genera un trascinamento lontano dal dolore e dalla sofferenza, come se dialogare sulla umanizzazione della pena fosse diventato un atto di lassismo politico e istituzionale. Eppure il carcere è luogo deputato alla elaborazione della pena, della colpa, dove l’uomo della pena nel tempo non sarà più l’uomo della condanna; ma quale uomo potrà diventare in una condizione di perenne disagio, costretto fino alle ginocchia nel proprio malessere, e in quello dell’altro?

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Un tempo il dentro e il fuori interagivano, riuscendo a edificare ponti di socializzazione, attraverso una capacità di coinvolgimento-partecipativo da parte del personale penitenziario, con impegno da parte di quel volontariato solidale perché costruttivo, basato sulla fatica dialogica e comportamentale, e con una interazione proficua e necessaria con la società tutta.

Perfino a chi disconosce la funzione del carcere e l’utilità della pena, non può sfuggire il valore educativo del lavoro, che la stessa Costituzione pone a fondamento del nostro Stato repubblicano: senza occasioni di lavoro, senza l’acquisizione di strumenti formativi professionali, il carcere come istituzione non può raggiungere gli obiettivi che gli sono richiesti, gli scopi per cui esiste nella sua utilità sociale.

In questa inquietante insicurezza, che spinge a richiedere maggiori tutele e garanzie per le vittime e i cittadini onesti, forse è proprio questo il momento di ripensare, ma non all’abolizione della Riforma Penitenziaria, non a rendere nuovamente invisibili uomini che hanno saputo ravvedersi e tornare ad essere parte viva del consorzio sociale.

È necessario ripensare un carcere dove esistano veramente tempi e modi di ristrutturazione educativa, rifacendo per davvero i conti con la metà della popolazione detenuta non italiana, con un buon altro quarto di tossicodipendenti, mentre la rimanenza è quella criminalità che ben conosciamo.

LEGGE GOZZINI
Legge n. 663 del 1986, che ha riformato l'ordinamento penitenziario, cercando di renderlo più vicino ai principi contenuti nella Costituzione. All'art. 27, terzo comma, si dice infatti che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. A questo riguardo la legge, che si applica alle persone condannate in via definitiva (e non, quindi, in attesa di giudizio) a una pena non superiore ai tre anni, prevede da un lato attività nelle carceri che favoriscano la socializzazione del condannato, dall'altro che si possano applicare misure diverse e alternative rispetto alla detenzione (come la semilibertà, il lavoro esterno, l'affidamento in prova al servizio sociale).

Riforme e innovazioni non sono istituti-totem da imbalsamare, ma vista prospettica per rispondere efficacemente alla richieste della collettività, che si duole di una recidiva che permane un mostro a due facce: una dimostra che la pena non aiuta a migliorare le persone, l’altra che il carcere non si riappropria della funzione di salvaguardia della comunità.

Altro che ammazzare la speranza annullando la legge Gozzini (vedi box a lato), è urgente trasformare l’ozio e un tempo pericolosamente bloccato in occasioni di lavoro e abitudine alla fatica progettuale, affinché il rispetto per la dignità personale divenga qualcosa da guadagnarsi durante l’arco della condanna, proprio perché quella speranza di essere uomini migliori dipenderà dal lavoro che ognuno di noi sarà disponibile a fare con se stesso.

di Vincenzo Andraous

 

 

 

 

 

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