Cinema indipendente. Intervista a Elda Ferri

Pubblicato il 31-08-2009

di Elena Goisis


Produrre film che durino nel tempo può significare essere oggetto di attacchi poco simpatici o dover attingere ad una fonte di reddito integrativa. Ma i soci della Jean Vigo Italia, casa di produzione indipendente fondata nel 1976, credono ne valga la pena. Ce ne parla Elda Ferri, Amministratore Unico.

intervista a Elda Ferri, di Elena Goisis


Partiamo dalle ultime produzioni: nel 2004 “Alla luce del sole”, dedicato a don Pino Puglisi, ora “I vicerè”, storia di una ricca famiglia siciliana, che uscirà ad ottobre.
Sono entrambi film con cui incontrare i giovani. Abbiamo presentato “Alla luce del sole” nelle scuole, dalla Sicilia sino al Piemonte, con 400.000 ingressi, il numero più alto realizzato con le scuole. Con “I viceré” faremo un lavoro pari. Si tratta di un discorso sui valori e disvalori, condotto attraverso la storia di una ricchissima famiglia siciliana di origine spagnola: gente che per avere potere e ricchezza non vive, perché sacrifica tutto al raggiungimento di quegli obiettivi. L’amore ed i sentimenti non esistono, devi sposare una certa persona perché l’unione tra le due famiglie le renda potenti… È un discorso terribile sull’odio, che fa sentire forti sostituendosi all’amore.
La Jean Vigo ha sempre prodotto film di questo tipo, che dopo trent’anni continuano a vivere. Oggi portiamo ancora nelle scuole un film di quindici anni fa, “Jona che visse nella balena”: è la storia di un bambino ebreo, Jona Oberski, che passa sette anni in un lager e quando ne esce, dopo aver perso il padre e la madre ed essere stato adottato, diventa un fisico nucleare. Un giorno di agosto del 1983, in autobus leggevo la sua autobiografia, “Anni d’infanzia”. Scesi, andai alla Posta centrale a cercare il nome di Jona, lo chiamai e ne nacque questo bellissimo film.

Nel 1999 lei ha ricevuto il premio Raoul Wallenberg dell’Università di Boston, destinato ai non ebrei che onorano la memoria del popolo errante...
Sì, abbiamo fatto diversi film sul popolo ebraico, oltre a “Jona”: “L’amante di Joshua”, “La vita è bella” e altri. Così l’Università di Boston mi ha dato questo riconoscimento.

Ma cosa significa “onorare la memoria” guardando al futuro?
Quand’ero giovanissima, subito dopo la guerra, s’iniziò a sapere dei campi di concentramento. Ero ossessionata da quello che era stato fatto nei confronti degli ebrei. La sopraffazione è un tema terribile, che mi fa paura ed al quale non mi rassegno. Lessi “Storia del Terzo Reich” di Shirer e rimasi colpita dalla frase scritta su un cartello indicatore a centro chilometri da Berlino, su una curva molto pericolosa: “Gli ebrei ai 100 all’ora”. Capii che quello che è stato fatto loro potrebbe essere – ed è stato - fatto a qualunque etnia “debole” del mondo. Bisognava parlarne. Io non penso che i nazisti fossero diversi da me, e mi sono sempre chiesta che cosa è successo in queste menti per portarle a comportarsi in un certo modo: potrebbe succedere anche me.
Mi sono identificata anche con chi stava dentro i campi: si saranno chiesti cosa facevamo noi “fuori”... A Berlino la comunità ebraica ha realizzato un Museo, all’interno del quale ha creato un percorso con alti muri: entri da una porta e una volta dentro non vedi l’uscita... io sono stata malissimo.

“I giorni dell’abbandono” (2004) è un altro tunnel senza uscita?
È un film sull’autostima: su come si possa perderla e in un certo senso morire. La protagonista mette la propria vita in mano ad un altro – responsabilità insopportabile – e comincia a pensare di meritare le sevizie che subisce.
Io associo “I giorni dell’abbandono” ad una scena di un documentario sui lager: due bambini, 7-8 anni, si arrotolano velocissimi la camicia e porgono il braccio per essere marchiati con il numero. È sconvolgente pensare come un bambino possa sottomettersi a una cosa del genere “per non far arrabbiare gli aguzzini”: c’è in ciò una violenza terribile, paradigmatica di molte altre situazioni. In tutti i nostri film noi abbiamo cercato di parlarne.

La Jean Vigo affronta una grossa sfida: film che non nascono per fare cassetta…
Sono film che devono durare nel tempo, come “Jona che visse nella balena”. Quando vado a presentarlo nelle scuole, i ragazzi escono piangendo: dentro di loro ha lasciato qualcosa. Nel film c’è una scena in cui Jona, che non vuole più vivere e si rifiuta di mangiare, vomita; la madre adottiva gli fa pulire dove ha sporcato; lui poi ricomincia a mangiare. A Milano un ragazzo ha commentato: “Io avrei preferito che Jona fosse morto”; Jona, che era presente, con vero senso dell’ironia ha risposto: “Io no, io ho preferito così”.
Il nostro lavoro si ispira a quello di Jean Vigo, regista francese: scegliere un punto di vista che ci appartiene e documentarlo, cercando di capire come siamo e perché siamo così.
Anche “I viceré” è un film difficile. Contiene un discorso duro sulla Chiesa del 1860 a Catania, ed uno sulla politica altrettanto duro, tanto che siamo costretti a precisare nei titoli che i dialoghi sono quelli originali (non vogliamo si pensi che li abbiamo manipolati). C’è anche il tema della legalità: cosa fare quando percepisci una legge come ingiusta?

A questo proposito, cos’è successo con “Forza Italia!” (1977)? Il film ha iniziato a girare, poi c’è stato il sequestro di Aldo Moro…
… e la sera stessa del sequestro tutti i cinema lo hanno ritirato dalle sale. È stato il nostro primo film e stava avendo un successo enorme, 600 milioni in un paio di mesi. C’era una parte dedicata a Moro, che spiccava su tutti insieme ad Andreotti e si era anche prestato ad una ripresa in piazza del Gesù. Io amavo molto i suoi discorsi sui giovani; ma nel film c’era una scena con una presa in giro: era ad un convegno ed una ragazza diceva “Com’è bello, com’è bello!”, mentre lui non era bello…
Io capisco che il film sia stato ritirato, capisco meno la battaglia durissima che subimmo durante la programmazione: tutte le settimane “La discussione”, giornale cattolico, attaccava Antonio Padellaro (sceneggiatore) e “Robertino” (Faenza, regista) con pezzi violentissimi, ingiustificati poiché si trattava di un film-documentario e quelli che rappresentava erano dei fatti (tant’è che il film non ha avuto una sola querela). Per dieci anni però noi non abbiamo più lavorato. Ogni volta che presentavamo un progetto in RAI ci dicevano: “Faenza no”.

Anche ne “I Viceré” c’è un episodio duro: i benedettini all’epoca erano ricchissimi ed appaltavano le preghiere notturne ai cappuccini, molto poveri. Non è così strano, se si pensa che molte vocazioni non erano vere, ma si trattava di secondogeniti delle famiglie più ricche obbligati a vivere e morire in convento perché non fosse diviso il patrimonio familiare: una cosa atroce, ed essi reagivano in questo modo. È un tema che ci creerà qualche problema, ma sarebbe importante aprire un discorso sulle vocazioni, sulle scelte di bontà… Perciò mi interessa la convinzione del Sermig che “la bontà è una scelta”: non sei buono o cattivo, puoi scegliere di essere buono e di praticare la bontà.

A proposito di scelte, in “Le chiavi di casa” (2003) un padre “sceglie” il figlio disabile…
Quando ho deciso di comprare i diritti del libro a cui è ispirato, “Nati due volte” (di Giuseppe Pontiggia – n.d.r.), mi ponevo il problema delle ferite narcisistiche dei genitori - soprattutto i padri - belli, ricchi, di successo e che hanno figli handicappati. Nel libro, alla fine c’è una frase importante del figlio – molto intelligente ma con problemi di deambulazione - al padre: “Se ti vergogni di me, cammina davanti”. Forse nel film non è emerso bene il processo interiore di questi genitori, ma io stessa in una situazione del genere non so cosa farei. Nella scena finale, quando il padre crede di avere ormai sotto controllo la situazione, il ragazzo comincia imprevedibilmente a recitare la formazione della squadra della Roma – un atteggiamento di difesa che ripete più volte nel film - quasi a dirgli: “Guarda che io sono un handicappato, non sono un’altra cosa”. Il pianto del padre che ne segue è una ricaduta nella realtà di un genitore che capisce che dovrà continuare a fare i conti con il proprio narcisismo.
Il film è stato co-prodotto con l’estero: oggi ad una casa indipendente sarebbe impossibile fare un film così solo con il finanziamento italiano.

Info:
jeanvigoitalia.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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