Come cambia la Cina

Pubblicato il 01-10-2012

di Aldo Maria Valli

MAX FERRERO / SYNC-STUDIO

di Aldo Maria Valli - Il colosso orientale alle prese con trasformazioni demografiche epocali: le città superano le campagne.

Si parla spesso della Cina come potenza economica e commerciale, ma di quell’immenso Paese sappiamo sempre poco. Per esempio, sappiamo quasi nulla dei fenomeni migratori interni, caratterizzati da cifre rispetto alle quali le migrazioni che interessano la vecchia Europa diventano davvero poca cosa.
Secondo i dati emersi dal censimento del 2010, la popolazione definita fluttuante, composta da chi vive e lavora lontano dai propri luoghi di origine, è di 230 milioni di persone, che entro la fine del 2012 potrebbero salire a 250 milioni. L’ufficio statistico ha calcolato che più di un terzo dei 19 milioni di abitanti di Pechino sono immigrati provenienti dai distretti rurali.

Del fenomeno si occupa in un’inchiesta la rivista Popoli, che nota come gli enormi spostamenti di popolazione che il boom economico cinese ha provocato negli ultimi trent’anni stiano cambiando radicalmente il volto del Paese. “Il censimento ha verificato il sorpasso della popolazione urbana su quella rurale; nell’epoca di Mao la prima era solo un quinto. Questo movimento ha riguardato soprattutto i contadini delle province interne diretti verso i centri manifatturieri della regione costiera. Secondo uno studio Usa, solo dal 1990 al 2005 si sarebbero spostati oltre 80 milioni di persone”.

“Le migrazioni riflettono enormi divari interni di ricchezza e sviluppo tra Cina urbana e Cina rurale. Nella prima, il reddito medio pro capite ha superato i tremila dollari annui, nella seconda arriva a malapena a mille. Nel 2010 in media un abitante di Shanghai era sette volte più ricco di uno del Guizhou. La repubblica popolare maoista concentrava nelle città il lavoro amministrativo e l’industria. Riservava alla popolazione urbana alcuni privilegi e controllava i flussi di popolazione attraverso un sistema di registrazione. Gli spostamenti della popolazione rurale erano strettamente regolati. I controlli sono andati progressivamente allentandosi a partire dagli anni Ottanta, quando sono state smantellate le comuni popolari ed è cresciuto il fabbisogno di manodopera a buon mercato nelle zone economiche speciali della costa orientale”. Da oltre mezzo secolo Cina rurale e Cina urbana vivono separate. Quasi 800 milioni di cinesi sono trattati come cittadini di serie B, impossibilitati ad avere la residenza legale in città e accesso ai servizi sociali garantiti ai cittadini.

Oggi esistono città industriali del Guangdong abitate in maggioranza da emigrati con permessi di soggiorno temporanei. “Gli operai non specializzati, addetti alle mansioni più umili, sono spesso soggetti a violazioni dei diritti del lavoro e ad abusi di vario genere. Non hanno accesso ai piani pensione degli abitanti delle città o all’edilizia popolare, anche se trascorrono lunga parte della vita in città”.

Un immigrato, il cui reddito è in media l’equivalente di cento dollari, ne manda a casa un terzo, consentendo alla famiglia di uscire dalla povertà. Le rimesse interne ammontano a circa 45 miliardi di dollari annui, con benefici  per il livello di vita nei villaggi: migliori scuole, acquisto di bestiame, attrezzi agricoli, elettrodomestici..
“Con la crisi – riferisce Popoli – solo tra il 2008 e il 2009, ventitre milioni di immigrati rurali hanno perso il posto di lavoro. Il rallentamento economico dei mercati occidentali ha un impatto sulla produzione delle regioni costiere. Allo stesso tempo, però, accelera la crescita economica di zone continentali, grazie all’aumento della domanda interna”.

“Chengdu, capoluogo del Sichuan, sta diventando un nuovo polo di sviluppo, grazie a investimenti pubblici enormi che spostano verso il far west cinese impianti produttivi alla ricerca di lavoratori più a buon mercato. Un caso noto è quello di un’industria taiwanese per produce componenti per la Apple che si è installata a Chengdu nel 2010 e prevede di assumere fino a mezzo milione di persone”.
Anche in Cina l’invecchiamento della popolazione e l’abbandono delle campagne creano scompensi. Ormai il 90 per cento dei giovani sotto i trent’anni anni non lavora più in agricoltura, riferiscono fonti ufficiali.

Ma il fenomeno demografico più inquietante resta il ridursi del numero di donne rispetto agli uomini. Trent’anni di politica del figlio unico, accompagnata da una cultura fortemente maschilista, hanno portato a uno sbilanciamento sempre più marcato: se nel 1978 in Cina c’erano 106 uomini ogni 100 donne, oggi gli uomini sono saliti a 118, tanto che in alcuni distretti rurali ormai per i maschi è normale dover emigrare per cercare moglie.  

L’INVIATO – Rubrica di Nuovo Progetto


foto di MAX FERRERO / SYNC-STUDIO

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