Come i due di Emmaus…

Pubblicato il 28-10-2011

di Massimo Frigo

di Massimo Frigo - La testimonianza di un giovane prete che non prende la vita così come viene. Spesso si sente dire che “nessuno è indispensabile”. Non so se sia vero, dato che tutti devono fare la loro parte e che nessuna vocazione prevede possibilità di delega, tuttavia so per certo che ognuno è insostituibile. La fantasia di Dio, infatti, ci ha creati unici e ciò impegna la nostra fantasia a non sprecare la vita e il mondo che ci sono affidati e che siamo chiamati a guardare con quel medesimo sguardo d’amore che Dio, sin dal principio, riserva all’opera della creazione.

È del Signore, infatti, il primo “Io ci sto”
: la storia della salvezza ne è prova, l’arcobaleno dopo il diluvio ne è garanzia, Gesù Cristo ne è il volto e il cuore. Il suo “Io ci sto” fonda il mio. Sono nato trentuno anni fa a Malo, in provincia di Vicenza, e qui sono cresciuto tra famiglia, scuola, parrocchia. Con un padre che se ne andò di casa quando avevo dieci anni e una madre che ha cresciuto me e mio fratello dando tutta se stessa. Con due nonni ad insegnarmi, assieme a bravi maestri e a buoni preti che la Provvidenza mi ha fatto incontrare, cosa significhi vivere, credere, amare, soffrire, sperare. A diciannove anni, dopo il diploma in ragioneria, entrai in seminario e a ventisei fui ordinato prete: cappellano di paese per quattro anni, studio ora teologia a Roma.
All’Arsenale ci capitai per caso, ancora da seminarista, e ci ritornai poi con alcuni animatori della parrocchia dov’ero: ne è nata un’amicizia che custodisco e che mi custodisce, rimotivando alla luce del Vangelo il mio essere uomo, cristiano e prete. A Torino ho visto brillare la sfida, realizzata e sempre da realizzare, di vivere una fraternità non di facciata, di costruire una pace non di plastica, di praticare una carità non di dovere. Nell’avventura, alla quale non mi sento estraneo, del Sermig, si offre al mio presente l’invito a passare dalla logica della pretesa e dell’accumulo a quella del dono e della restituzione, impegnandomi a riconoscere in ogni volto una speranza, in ogni storia una grazia, in ogni istante un’opportunità di fare il bene. Si tratta cioè di fare nostro, come progetto, il sogno di Dio. Ma ciò è possibile solamente a chi è disposto ad accettare il rischio dell’amare e dell’essere amati. Maria stessa, di fronte all’annuncio dell’angelo, dovette passare dal “Come è possibile?”, sul quale noi spesso incateniamo la realtà e noi stessi, all’“Eccomi!” di chi, disarmato da se stesso e di se stesso, si abbandona alla fedeltà di Dio.

Egli solo, infatti, è capace di fare eucaristia di ogni nostra carestia. Io stesso ne faccio esperienza ogni qual volta celebro, su di me e per gli altri, il sacramento della riconciliazione. Nella mia povertà, confessata e perdonata, cerco pertanto di vivere tenendo fisso lo sguardo su Gesù (Cfr. Eb 12,2), incontrando e lasciandomi incontrare da coloro la cui strada di vita s’incrocia o si accompagna alla mia. Soprattutto in parrocchia, dove le mie giornate venivano spesso ritmate più dall’imprevisto che dall’agenda, mi sono sempre proposto di accogliere il presente come tempo e spazio della presenza del Signore che in esso mi parla, mi interroga, mi coinvolge nella sua eterna avventura d’amore.
Ciò però mi ha chiesto (e continuamente mi chiede) di saper rinunciare ad ogni accomodante superficialità di chi prende la vita così come viene per andare oltre la scorza di ciò che appare e di ciò che accade. Solamente in questa prospettiva gli eventi della vita si rivelano come avventi dei quali, come il vecchio Simeone al Tempio, poter dire: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza” (Cfr. Lc 2,30). E se anche non sempre queste parole sono facili da dirsi e da darsi sulla propria vita – in me è ancora vivo il dolore per l’improvvisa morte, avvenuta cinque mesi fa, di mia mamma –, io non le rinnego ed esse, mentre le rinnovo ogni giorno nella preghiera di compieta, rinnovano me e mi riconciliano con la mia storia. In questa prospettiva, quindi, non vi può essere alcuno spazio per l’approssimazione che annega nel grigiore dell’abitudine l’entusiasmo del discepolo e la creatività della sua fedeltà a Dio.
Non vi può essere nessuna disponibilità a compromessi che svendono il fuoco vivo del Vangelo per fiammiferi bagnati, incapaci di accendere qualsiasi cosa o persona. Non vi può essere alcun margine all’indifferenza che vorrebbe fare dei cristiani la tappezzeria della nostra società: la fede non è la carta da parati, più o meno gradevole, che decora il nostro soggiorno in questo mondo, ma è anzitutto impegno quotidiano, dedizione nel silenzio, sobrietà come esercizio di giustizia e di rispetto, coerenza nonostante tutti e tutto. Me lo hanno insegnato, assieme alla mitezza e all’umiltà, quegli anziani e ammalati che mi capita di visitare: è per la loro fede, la loro preghiera, il loro stare in ginocchio – penso spesso – che il nostro mondo e la Chiesa stanno in piedi! Oggi è passato il tempo in cui don Lorenzo Milani, dal povero pulpito della chiesa di Barbiana, rispondeva con l’inglese “I care” (che significa mi interessa, mi sta a cuore) a chi, dal tronfio balcone di palazzo Venezia, propinava all’Italia il suo “Me ne frego!”.

È altrettanto lontano negli anni quel che don Primo Mazzolari
, (foto) dalla campagna che corre spaziosa tra Mantova e Cremona, scriveva: Ci impegniamo noi e non gli altri... senza pretendere, senza giudicare, senza accusare, senza condannare... Ci impegniamo perché non potremmo non impegnarci... Noi crediamo all’amore. Ciononostante vi è in loro un’attualità, propria della profezia cristiana, che è incancellabile. Non vorrei che queste loro parole rimanessero soltanto parole e pertanto me le ripeto spesso, quasi ogni giorno, in modo che, nonostante di don Milani e di don Mazzolari io non abbia né l’intelligenza né la santità, il mio essere prete possa almeno provare a condividere la loro vibrante passione per Dio, per la Chiesa, per l’uomo. Ogni giorno ed ogni istante, quindi, sono disposto a mettermi pienamente in gioco e ad accettare la sfida, dalla quale nessuno esce perdente, del dialogo: non voglio fare come i farisei che rivolgono le domande al Signore, ma non sono disposti ad accettare le sue! Per me mettersi in gioco significa giocarmi fino in fondo per non essere giocato da alcun interesse o potere di parte. Significa compromettersi: verbo che mi piace interpretare come con-promettere, cioè promettere-assieme e quindi condividere una speranza comune e la volontà di darle forma. Significa metterci la faccia, anche a costo di perderla o di vederla – come da sempre mi capita – arrossire di quella timidezza che dice delicatezza, non vergogna, per il Vangelo di Cristo di fronte al quale mi scopro sempre in difetto. Assieme alla faccia, poi, mi impegno a metterci anche la testa e il cuore che sento chiamati, adesso che trascorro molte ore sui libri e tanto più un domani quando probabilmente sarò professore in seminario, ad accordarsi in un dialogo d’affetti e di pensieri che sappia nuovamente parlare ai volti tristi di tanti moderni discepoli di Emmaus che procedono stanchi e sfiduciati sulle strade, ora agitate ora pigre, del nostro tempo.
Quei due pellegrini, con le loro speranze andate in frantumi, erano allora in pieno black-out: camminavano di giorno, ma avevano la notte di dentro. Infiammati nel cuore dal Risorto, che per loro spezzò la Parola e il Pane di vita, furono però ben pronti a correre nella notte verso Gerusalemme perché la Luce, ormai, la portavano dentro e nessuna delusione poteva più fermarli, nessuna tenebra poteva più spaventarli, nessun buio risultava più invincibile perché squarciato – una volta per tutte, una volta per tutti – dal Signore Gesù. E lui sì, senza dubbio, è indispensabile!

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