Comunicare senza scomunicare

Pubblicato il 10-08-2011

di Claudio Maria Picco

Parlare di fede in un mondo distratto, indifferente, a volte ostile, senza pregiudizi. Risponde Ermis Segatti, docente di storia del cristianesimo alla facoltà teologica di Torino, referente per la cultura e l’università della Diocesi di Torino.

intervista di Claudio Maria Picco

 

Come si può comunicare la fede oggi?
La comunicazione della fede se per un certo verso percorre da sempre vie assolutamente semplici, per un altro si può logorare. Corre allora il rischio di comunicare il contrario della fede. Quando accade, è doloroso constatarlo. La prima grande, assolutamente semplice, comunicazione della fede avviene attraverso ciò che le persone sono e vivono, attraverso la testimonianza che, nel corso dei tempi come pure oggi, può giungere fino al martirio. Alla Chiesa e ai credenti - dove per Chiesa e credenti si intende chiunque nella Chiesa - la domanda fondamentale che mai possa essere rivolta resta la seguente: dove e come posso vivere un’esperienza autentica di fede? Quando la si incontra, la comunicazione è piena. Gesù stesso ci viene trasmesso attraverso le sue parole e le sue opere. Ed in effetti il Vangelo continua ad essere lo strumento di comunicazione per eccellenza sia per il credente sia per chi si accosta per la prima volta alla fede.
La comunicazione della Chiesa è più dogmatica o più dialogica?
Nel nostro mondo occidentale si è dato spesso molto spazio all’identità che verrebbe dalla corretta adesione ad alcune tesi, ad alcuni principi formulati in termini di elenchi di verità. Tuttavia va anche detto che proprio noi forse risentiamo di un’incapacità di vivere spiritualmente ciò che professiamo col pensiero, corriamo il rischio di ridurre il tutto a una questione ideologica magari rigorosa, ma fredda. Nella secolare tradizione della fede il pensiero volle essere invece l’espressione di un respiro profondo, di un respiro spirituale, sempre generatore di un’esperienza di vita e generato da essa.
Il crocifisso, uno dei segni più evidenti della comunicazione della fede, è oggi molto discusso.
Intanto bisogna accettare che siamo ad un crocevia di tradizioni tra di loro molto diverse e in confronto multiplo. Il crocifisso ha avuto una presenza così grande nella tradizione cristiana perché la fede ha pervaso intere civiltà. La croce poi ha sempre rappresentato un modo per definire che cosa il cristianesimo è rispetto alle altre religioni, nel senso che non si trova in nessun’altra tradizione un modo di accedere a Dio e di manifestarlo come avvenne in Gesù attraverso appunto la passione e per noi attraverso la sua croce. Talora ci fu pure un’accentuazione della croce rispetto ad altre dimensioni della fede, ad esempio la Resurrezione. Comunque la croce resta un segno distintivo straordinario del cristianesimo. Tuttavia nella nostra epoca alcuni la percepiscono come estranea, la avvertono persino come un’imposizione, avendo essi smarrito o mai sperimentato la fede che rende ragione di quel simbolo. Dobbiamo prepararci ad accettare il fatto che per qualcuno il crocifisso rappresenti solo più un segno culturale o che dal punto di vista solo culturale sia controverso. I cristiani, che spesso vivono in una condizione di minoranza, possono legittimamente rivendicare per il crocifisso la dignità di quella fede che fu alla base di tanta parte nella nostra civiltà. Non si dovrebbe però mai dimenticare che quel crocifisso è così presente perché rimanda ad una presenza della fede cristiana che oggi come tale deve essere innanzitutto rivivificata, non appiattendosi su coloro che si appropriano del valore culturale del cristianesimo per scopi politici.
 
La coscienza cristiana è una coscienza infelice o una coscienza che sa comunicare gioia, amore, sa guarire le inquietudini, sa dare significato al male, ai mali, al dopo…?
Ogni esperienza profonda di fede illumina il senso ultimo della vita, le dà ancoramento e nasce da queste esigenze profonde. Soprattutto instaura il dialogo per eccellenza, che è il dialogo interiore che ciascuno di noi ha con Dio, con se stesso, con gli altri. Il cristianesimo offre tutto ciò attraverso la mediazione straordinaria di Gesù, Dio fattosi uomo come noi. Scoprire l’ancoramento profondo in Dio non può che produrre gioia, una gioia non ilare, non superficiale, ma serena e profonda. È l’annuncio del Vangelo che, come dice la parola, è una Cappella Arsenale della Pace: croce dei dolori del mondocomunicazione gioiosa di salvezza. Comunica quella presenza di Dio che si è manifestata in Gesù, che solleva e sostiene l’esistenza e la toglie fuori dalla prigione di una vita senza senso, ancorata su se stessa, senza prospettiva oltre la vita stessa. Bisogna però constatare che in alcuni casi la trasmissione, la comunicazione della fede può presentarne un volto distorto, qualche volta anche triste, infelice, opprimente: rinnegare se stessi, sacrificarsi, ma senza manifestarne la ragione ultima, l’amore, un bene per sé e per gli altri. Ne deriva una visione non salvifica, bensì deprimente della vita, mortifera per la persona. Mi è capitato di vedere recentemente un film - Chocolat - che presentava una visione puritana di un cristianesimo il cui messaggio suonava: tutto è proibito. Il solo fatto di potersi godere un po’ di dolce al cioccolato sembrava allora che liberasse la gioia di vivere. La concorrenza al cristianesimo dalla bontà del cioccolato! Chi ha fatto quel film ha ricevuto o ha percepito del cristianesimo solo la negazione e non l’affermazione, non l’annuncio salvifico.
 
Si può comunicare la fede senza scomunicare?
Secondo me questa domanda apre una questione scottante. Per una certa mentalità, forse dominante oggi in questo passaggio di civiltà, non ci sarebbe nulla di definito, non esisterebbero riferimenti saldi, convincenti al punto da trascinare tutta la vita. Al massimo si potrebbero esprimere opinioni, pareri, fare delle esperienze, ma mai scegliere definitivamente qualcosa, confinati nell’essere sempre spiritualmente precari. La fede invece dice che c’è qualcosa per cui vale la pena scegliere e individuare delle priorità. Non è tanto la scomunica in questione, ma l’affermazione di ciò che la fede rivela come valido in termini che non amalgamino tutto in un pacioso qualunquismo od opinionismo per cui una cosa vale l’altra: se la pensi così, sei libero di pensarlo e tutto finisce lì. Il cristianesimo è esigente. Al posto della scomunica userei una formula diversa: essere esigenti, avere la capacità di proporre qualcosa che vale la pena di essere scelta rispetto ad altro. Nello stesso tempo il credente dovrebbe non coprire mai di assoluto ciò che è relativo e motivare comunque le scelte sulla base di ciò che hanno di valido, anche se non entusiasmano dal punto di vista politico o ideologico o d’altro. In fondo il cristianesimo per un verso è netto nel chiedere la fede nel vero Dio, ma è altrettanto netto nel dire quel che Dio non è.
C’è un testimone del nostro tempo che ti ha ispirato?
Con mia grande sorpresa scopro la straordinaria rilevanza di coloro che mi hanno reso testimonianza anonima, cioè di quelli che ritengo davvero grandi, ma non hanno avuto risonanza storica. Chi si è accorto che la Parola si è fatta uomo, si è incarnata in Gesù? Gli ultimi, suggerisce il Vangelo. Lo confermo. Sono loro che mi hanno fatto capire. E sono persone grandi.
 intervista di Claudio Maria Picco

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