Cooperazione di qualità

Pubblicato il 31-08-2009

di sandro


I disastri naturali - si pensi alla siccità in Africa orientale - stanno aggravando la situazione di Paesi per i quali gli obiettivi di sviluppo sono ancora lontani. Ponendo tante domande, anche sull’operato della cooperazione internazionale.

di Renato Kizito Sesana   

Parlare della cooperazione internazionale significa soprattutto, purtroppo, parlare di fallimenti.
Sarebbe impietoso fare una lista degli impegni che le Nazioni Unite e quella che oggi chiamiamo genericamente la comunità internazionale si sono assunti e che non sono stati mantenuti. Gli anni ‘60 sono stati il decennio dello sviluppo, poi negli anni ‘80 lo slogan era acqua pulita per tutti per il 1990. Più tardi Salute per tutti per il 2000, eccetera eccetera. Si potrebbe fare dell’umorismo se non fosse che ci sono oggi più di un miliardo di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno. E che per arrivare a questo risultato negli ultimi 60 anni sono stati spesi, secondo i calcoli più attendibili, almeno duemila miliardi di dollari.
Quali lezioni dovremmo imparare da 60 anni di cooperazione internazionale che non funziona? Ci dovrebbe almeno venire il sospetto che forse i soldi da soli non servono a niente. Davvero la soluzione consiste nel raddoppiare gli aiuti, come tanti oggi sostengono, non ultima la Commissione per l’Africa, istituita dal governo inglese? Potremmo metterci ad esaminare il problema in se stesso, cioè il fatto che il concetto di sviluppo è difficile da definirsi e ancor più difficile da analizzare nella complessità della sue componenti.

Bimba della Coinonia Community, "Anita's home" di Nairobi, uno dei progetti seguiti da padre Kizito in Kenia

Innanzitutto quale modello di sviluppo? Più centrato sull’economia o più rispettoso delle persone? È lo sviluppo all’occidentale il modello supremo, l’apice della crescita umana a cui gli altri si devono adeguare? Questo, anche se non viene mai esplicitato, è certamente il presupposto fondamentale, il substrato ideologico, dell’azione delle agenzie delle Nazioni Unite e delle grandi ONG internazionali. Potremmo poi fare una lista delle responsabilità dei principali protagonisti, cioè da una parte i Paesi che beneficiano della cooperazione internazionale, e dall’altra i Paesi e le istituzioni che invece fanno cooperazione.

Personalmente resto convinto che - pur con ritardi e sbagli colossali - ci stiamo lentamente avvicinando a capire quali sono i meccanismi dello sviluppo. In questi sessant’anni siamo passati da una visione puramente economicista del problema - quando sembrava che sarebbe bastato moltiplicare gli aiuti - a una visione in cui giocano un ruolo importante le culture locali e la giustizia nel commercio internazionale. Chi continua solo a puntare sull’aumento dei fondi disponibili per la cooperazione internazionale mi sembra insista su una strada che non ha dato risultati. La cooperazione non è (solo) un problema di quantità, ma di qualità.

Quando si parla di come la cooperazione allo sviluppo sia usata male, generalmente si sottintende che ad usarla male siano i governi dei Paesi che beneficiano della cooperazione. E questo è certamente vero. Ma è altrettanto vero che il fallimento della cooperazione è da addebitarsi anche alle organizzazioni internazionali, alle ONG, ai Paesi donatori. I documenti ufficiali della cooperazione internazionale si sono creati delle parole chiave e i progetti sono tutti costruiti intorno ad idee come dare potere ai locali, sviluppo sostenibile e così via.

I fatti però parlano un altro linguaggio, e basta esaminare un po’ da vicino i progetti per accorgersi che:
a. una volta che i progetti sono stati approvati, c’è sempre una grande urgenza per realizzarli, anche quando la realtà locale non è recettiva o comunque non è pronta;
b. si ripetono spesso gli stessi errori, perché i dirigenti delle ONG che gestiscono progetti che hanno miseramente fallito non sono mai in nessun modo chiamati a rispondere delle loro responsabilità;
c. c’è una sindrome che nasce dall’usare i Soldi degli Altri, cosi che spesso li si spende pur di spenderli, comunque senza trasparenza né verso i beneficiari né verso i donatori;
d. le ONG non ammettono mai di aver fallito, per mantenere alta la loro immagine e continuare cosi a ricevere fondi dalle istituzioni. L’immagine è sempre più importante della sostanze, in un campo dove invece la sostanza e la qualità dell’intervento dovrebbero prevalere;
e. c’è un mercato dei fondi della cooperazione internazionale messi a disposizione per esempio dall’Unione Europea, con bandi e concorsi. Tale procedura dovrebbe avere la funzione di accordare i fondi alle ONG più qualificate. Invece spesso la burocrazia è così complicata che finisce per favorire i progetti mastodontici, quelli presentati dalle ONG più istituzionalizzate, più ricche di esperti e quindi alle fine più rigide e meno pronte a rispondere ai bisogni veri della gente.

Ho letto recentemente l’opinione di un esperto che, per ridurre i problemi di cui sopra, propone provocatoriamente di tagliare a metà gli aiuti allo sviluppo e di mettere a dieta le grandi ONG, affinché riducano i progetti e curino più la qualità, sospendano le assunzioni e si impegnino a ridurre il loro personale di almeno il 30%. Troppo drastico? Non credo, i progetti e gli esperti inutili sono veramente tanti, almeno nell’Africa in cui vivo.
Un aspetto fondamentale comunque è la presenza della corruzione nella cooperazione internazionale e nelle ONG che la gestiscono. Per rimediare a questo fatto, che genera e alimenta la corruzione nei governi e nelle ONG locali, i discorsi generici non servono, ci vuole più controllo. Per essere concreto, parlo della mia esperienza. In quasi trent’anni d’Africa mi è capitato di incontrare:
- chi mi ha proposto “ti finanziamo questo progetto che costa 100, ma devi pur capire che noi dobbiamo vivere e quindi il progetto che presenteremo per avere il finanziamento dell’Unione Europea sarà di 600”, e i responsabili di questa proposta si sono offesi per il mio rifiuto di collaborare;
- una ONG che apparentemente era disposta a procedere onestamente, ma poi dopo aver ricevuto dall’Unione Europea 240mila euro per un progetto di una scuola di arti e mestieri per bambini di strada, e dopo avermene consegnati solo 80mila, mi chiede di firmare di aver ricevuto tutta la somma;
- e, ancora più abietto, il rappresentante di una ditta internazionale che porta rifornimenti in situazione di emergenza. Quando chiedo quanto costa alla tonnellata un riso di prima qualità, me lo dice aggiungendo: “Ma poi naturalmente noi le possiamo mandare un riso di qualità molto inferiore, tanto per questa gente la qualità del riso non fa nessuna differenza”.
Questa lista dell’infamia potrebbe continuare. In questi casi è molto difficile anche solo denunciare i fatti, perché bisogna avere dei documenti per provare la corruzione. Quando si è completamente assorbiti dagli impegni quotidiani non si è attratti dalla prospettiva di una battaglia legale lunga, costosa e che richiederebbe troppo tempo.

C’è bisogno di una riforma urgente e seria nella cooperazione internazionale, ma l’industria della cooperazione non è trasparente, non risponde a nessuno e non desidera che questo stato di cose cambi. I rapporti delle ONG sui progetti realizzati o in corso di realizzazione trasudano sempre un grande ottimismo. Se rispondessero anche in minima parte alla realtà sul terreno, la povertà non dovrebbe esistere da molto tempo. Prepariamoci invece a risentire fra 5 o 10 anni la chiamata ad un’altra decade contro la povertà e al raddoppio delle cifre stanziate.
E allora si preferisce concentrarsi a collaborare con le ONG serie. Ce ne sono. E visto che è difficile fare i nomi di quelle che serie non sono, per lo meno io posso testimoniare di aver visto lavorare molto seriamente alcune ONG italiane. Per esempio, fra quelle con cui mi è capitato di collaborare - in ordine alfabetico! - AIFO, Amani, CCM, CEFA, CUAMM, Mani Tese, Sermig, VIS.

Renato Kizito Sesana
Da Nuovo Progetto marzo ‘06







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