Crisi Fiat

Pubblicato il 31-08-2009

di andrea


Una crisi brutta. Una crisi esplosa in una città che per anni è stata (e lo sarà ancora, speriamo) la Detroit d'Italia. Un matrimonio vissuto gagliardamente con Valletta e la Fiat che lievitava sempre di più di vetture che hanno segnato un'epoca, di tre turni di lavoro dovunque, di boite che diventavano piccole aziende per sfornare fari, scocche, cruscotti, maniglie.


Un legame che, col tempo, s'è affievolito, ha perso grinta, modelli e peso, ma non la voglia di sognare in grande. Una città, Torino; un nome, la Fiat. E la famiglia Agnelli che c'entrava in tutto: nei giornali, nelle mostre, nelle scelte, nel futuro. Poi, lentamente, il mondo è cambiato. Sono arrivate le prime recessioni. E' finito il pendolarismo, nei palazzi della cintura gli operai prepensionati tornati al sud hanno lasciato il posto ai figli che hanno cercato di cambiar lavoro.
Torino stessa ha cominciato a smarcarsi dalla "monocultura Fiat", un po' per necessità, un pò per quel filo d'amore e odio che da sempre la lega al colosso automobilistico.
Un filo più volte spezzato: con la marcia dei quarantamila, con le le voglie d'occupazione. Un filo più volte riallacciato e soprattutto nei momenti più difficili.
Poi i centri direzionali hanno disperso per la città gli uffici, corso Marconi ha lasciato il posto a via Nizza, al Lingotto.
E, mentre la famiglia Agnelli si affidava troppo a big manager come Cesare Romiti e Paolo Cantarella, il mercato è diventato "globale", la Fiat una holding con interessi in tutto il mondo che ha fatto molta più finanza e, purtroppo, meno auto. La crisi, dunque, arriva da molto, molto lontano. Passa sicuramente attraverso scelte sbagliate, modelli non indovinati, la "qualità totale" mai raggiunta, ma è un "tunnel buio" dal quale è ancora possibile uscire. Lo dicono gli economisti, lo ripetono le banche, la fantasia e l'estro di designer e progettisti, lo sanno i sindacati, lo sanno gli azionisti e primi tra tutti l'Avvocato e il fratelle Umberto. Ma come ora "la famiglia" è tornata, quasi per forza, protagonista della sua storia e, nello stesso tempo, della storia di una buona parte di Torino. Gianni Agnelli, malato, ha cercato alleanze; Umberto ha fatto il resto. Il destino della Fiat è ancora in mano loro dopo che entrambi hanno dovuto dire addio troppo prestoi ai loro figli (Edoardo e Giovanni Alberto), dopo che entrambi s'erano un pò allontanati dalle plance di comando.
I cortei attraversano una Torino ferita, il disagio e le difficoltà di migliaia di cassintegrati, l'impegno del sindaco, Sergio Chiamparino, dei presidenti della Regione, Enzo Ghigo, della Provincia, Mercedes Bresso dicono quanto sia grave il momento. Nessuno è stato e sta a guardare. Neppure la Chiesa. Anzi il cardinale Severino Poletto ha avuto (e continua) un ruolo forte di stimolo. Vicino ai cassintegrati, ma pronto a chiamare casa Agnelli per far riprendere il dialogo.

E, ancora una volta, la Torino dalle tante anime appare più unita che mai: anche nello sventare complessi giochi finanziari che rischiavano, forse, di portare altrove "testa, cuore e ingegno" della città dell'auto. Certo Torino non è più e non lo sarà mai più soltanto la città dell'auto. Si sta costruendo un futuro diverso: con industrie diverse e lavori nuovi, interessi ritrovati di città d'arte e di enogastronomia.. Torino sarà sempre di più "altro" e non solo auto, ma non potrà ancora (e per molti anni) essere solo "altro". Dunque che nessuno ci porti via o pensi di rubarci anche la Fiat. Sarebbe intollerabile per una città che ha inventato tutto (dal cinema alla tv, alla moda) ma s'è fatta portare via tanto, anzi, troppo. Una razzia cominciata oltre un secolo fa quando non fu più capitale e restò con le sue sabaude strade e le enormi piazze riempite soltanto nei giorni dell'orgoglio delle tute blu e dei colletti bianchi, ora di nuovo sotto minaccia. Anche la Fiat.

Gian Mario Ricciardi





 

 

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