Cristiani di TUNISIA

Pubblicato il 31-08-2009

di Elena Goisis


Dialogo e integrazione. Vi proponiamo la preziosa testimonianza del vescovo di Tunisi.

a cura di Elena Goisis

Monsignor Fouad Twal, nativo di Madaba (Giordania), dal 1992 è il primo vescovo non europeo a guidare l'unica diocesi tunisina: una comunità di ventiduemila cattolici - su una popolazione di quasi dieci milioni di abitanti - che tra molte difficoltà testimonia con la sua presenza l'opportunità di essere un ponte tra il mondo arabo-musulmano e il mondo occidentale. Gli abbiamo posto alcune domande.

Qual è la situazione e la missione della comunità cristiana in Tunisia?
La missione tocca a tutta la Chiesa, non agli individui. Per evidenziare questo concetto faccio un esempio: la Caritas a Tunisi non esiste come struttura a sé stante, perché non vogliamo si pensi che l'attività sociale della Chiesa debba essere delegata ad una istituzione. Può essere una debolezza nostra, come può essere una grandezza, nel senso che tutta la Chiesa è chiamata a far la "Caritas", ad essere membro della Caritas, con l'aiuto, con la preghiera, con la collaborazione.

Noi siamo poveri di risorse umane, quindi la nostra missione di fondo, la nostra vocazione, è rimanere uniti, essere una famiglia, una Chiesa-famiglia di Dio che testimonia con la sua carità, con la sua presenza, con la sua coerenza. La nostra vita ecclesiale non è facile, siamo limitati in tutti i sensi. Non possiamo manifestare fuori la chiesa, nessuna processione, neanche il campanile.

Il nostro dialogo è solamente dialogo di vita, dialogo di testimonianza, dialogo di amicizia. Siamo coscienti della nostra vulnerabilità, della nostra minoranza, però non abbiamo alcun complesso mentre il Signore sta con noi. Questa è la missione di tutta la piccola comunità cristiana a Tunisi. D'altronde anche i veri cristiani in un Paese cosiddetto cristiano sono una minoranza. Ormai, tutti i fedeli a Dio, fedeli alla famiglia, alla religione, sono e saranno sempre una minoranza!

Lei pensa che i cristiani arabi abbiano qualche caratteristica particolare da portare alla Chiesa universale?
Dobbiamo essere coscienti che siamo come un ponte tra il mondo arabo-musulmano e il mondo occidentale. Siamo arabi. Sono arabo del deserto con una cultura araba, in tutti i sensi, con una certa sensibilità e sono orgoglioso di esserlo. Abbiamo una mentalità arabo-musulmana, abbiamo un approccio arabo-musulmano e con la nostra fede cristiana siamo parte anche del mondo occidentale cristiano. Se potremo essere questo ponte di dialogo tra il mondo musulmano-arabo e l'occidente, sarà bello.

Il fatto è che noi stessi non siamo coscienti di questa opportunità, d'altronde neanche l'occidente ci considera con l'attenzione dovuta nel chiedere alle comunità cristiane arabe di far qualcosa in questa direzione. Se ci affidano questo compito, se ci aiutano a vivere la nostra vita cristiana e il nostro senso di appartenenza sia al mondo arabo come arabi, sia al mondo cristiano come cristiani, forse possiamo fare qualche cosa di più.

Non tutti i fedeli condividono questa visione, perché guardando il presente così confuso e diviso tra musulmani, ebrei, cristiani e considerando il futuro un'incognita per loro e per i loro figli, non accettano volentieri questa vocazione, questa missione, preferiscono emigrare. È un'emorragia umana dai luoghi nostri, che rischiano di rimanere soltanto luoghi santi, muri santi, rovine sante, senza più l'elemento umano: questo è un peccato.

A proposito di dialogo, qualcuno dice che le iniziative di dialogo con il mondo musulmano che facciamo in Europa servono a poco fino a quando non si riuscirà a portare iniziative di dialogo nei Paesi a maggioranza musulmana…
D'altronde l'iniziativa di dialogo è sempre stata iniziativa nostra, cristiana, e questo è un motivo di orgoglio per noi. I musulmani non sentono il bisogno di questo dialogo per tante ragioni, ad esempio perché si sentono superiori. Il dialogo con i musulmani in Europa dà pochi risultati perché per ora sono dispersi, vengono da tutte le parti del mondo musulmano, non hanno una omogeneità.

Bisogna tener presente che l'islam non è monolitico. I primi arrivati erano musulmani, non era l'islam! Con loro era più facile parlare, non erano fanatici. Ormai l'Europa ha dentro di sé l'islam, sia per la presenza di stranieri musulmani, sia per gli occidentali che si sono convertiti. Per me il problema grave è che gli occidentali hanno creato un vuoto, hanno messo il Signore fuori dalle scuole, dalle famiglie, dalla società, dalla politica, dalla Costituzione Europea, mentre i musulmani fanno "overdose" di sacro e vengono a riempire questo vuoto che gli europei si sono loro stessi creati.

Origini beduine
Monsignor Fouad Twal ha origini nomandi, discendente della tribù di Al Ozeisat che, sin dagli albori dell'era cristiana, accolse la Parola del Messia e continuò nei secoli a mantenere saldi i precetti di amore e di fratellanza universale del cristianesimo. Unica nel suo genere è la storia della sua etnia: dopo il grande scisma orientale questa comunità si ritrovò separata da Roma senza saperlo, poiché - è lui stesso a raccontarlo: "nessuno si era sentito in dovere di avvertirci". Ma a Roma si riunì nuovamente negli anni Cinquanta dell'Ottocento, conquistata dal carisma di un sacerdote di origine veneta, un tale Manfredi che - come spiega lo stesso mons. Twal - "visse a lungo con il nostro popolo sotto le tende".
La paura di loro viene dalla coscienza che c'è un vuoto e che il vuoto deve essere riempito. Se non sarà riempito da noi, dai nostri valori, dal Vangelo, sarà riempito da altri! La paura è una diretta e inevitabile conseguenza della scelta del modo di vivere. O cambiamo modo di vivere o andiamo a pagare il prezzo di quello che abbiamo scelto noi stessi. Un esempio concreto: i figli. L'Italia è sottozero di figli: che volete? Chi vi farà tutto il lavoro? Allora, o vogliamo il lavoro, e dobbiamo far appello a manodopera straniera, che oltre al lavoro farà propaganda, o prendiamo la nostra vita sul serio, e sarà un rimedio.

In una sua intervista lei osservava che siamo stati finora deboli nel chiedere diritti ai Paesi musulmani per le minoranze che vivono lì. È un tema che ci interessa, perché all'Arsenale della Pace, accogliendo molti immigrati, abbiamo via via capito che bisognava porre una condizione di reciprocità: io ti accolgo, ma tu mi aiuti ad accoglierti rispettando gli altri, rispettando me.
Ognuno ha i diritti garantiti dalla Costituzione del Paese in cui si trova. La Costituzione dell'Italia assicura il diritto alla vita, il diritto alla fede, ecc. Dobbiamo chiedere ed esigere la reciprocità, ma non potrà mai essere una condizione "sine qua non", perché non tutti hanno il senso della cultura della reciprocità. Tuttavia nel mondo musulmano ci sono Paesi con cui c'è reciprocità, come la Giordania, il Libano. Quindi non si può generalizzare.

Dal punto di vista evangelico non si pone il problema della reciprocità, l'ultimo giudizio è il nostro modo di accogliere o di non accogliere chi ha bisogno di aiuto; c'è una domanda che tocca noi cristiani: "tu cosa stai facendo per aiutare i miserabili?". Siamo chiamati a trattare bene tutti, anche se non abbiamo la reciprocità. Se non l'abbiamo per adesso, speriamo di averla un giorno: a Tunisi, per esempio, dobbiamo muoverci nel quadro del possibile ovvero facendo quello che possiamo fare; e poi c'è un altro quadro, quello dell'augurabile, però non posso dormire aspettando che si realizzi. Nel frattempo devo seminare, fare del bene, fare il possibile perché questo augurabile sia anche fattibile, sia possibile un giorno.

Questo è il contesto del nostro mondo arabo-musulmano, questo è il contesto in cui il Signore ci ha mandati a lavorare, a testimoniare; dobbiamo amarlo tale e quale, con i suoi aspetti positivi e i suoi aspetti negativi. Di fronte a questi aspetti negativi, una domanda si pone a noi cristiani: "tu cosa fai per rimediare, per sanare, per aiutare a mettere questa gente in piedi?". Tu, cristiano, non puoi accontentarti di denunciare e lamentarti giorno e notte. I rifugiati musulmani arrivano e arriveranno, che ci piaccia o no. Tu puoi avere "una crisi di nervi", non cambia niente, arriveranno. Semmai, in che modo possiamo ricevere questa gente, aiutarla? Con una certa integrazione, con calma, con il tempo, con pazienza, con fede, per arrivare a fare qualche cosa insieme. Manca questa visione evangelica d'amore per il prossimo tale e quale è. Come il Signore ha tempo e pazienza con noi, noi dobbiamo avere tempo e pazienza con gli altri.

Un'ultima domanda: come stanno i giovani in Tunisia?
Sono in una crisi che fa pena: c'è la disoccupazione, c'è mancanza di credibilità nei dirigenti arabi stessi, c'è una profonda crisi religiosa perché la religione musulmana da sola non basta a dare una risposta a tutto, c'è questa violenza musulmana nel mondo musulmano che nausea tutti quanti. Questi giovani sono in crisi e non ci sono più punti di riferimento per loro. Non sanno che fare; alcuni hanno il sogno di raggiungere l'Europa, un sogno che non si realizza come speravano, perché, anche se vi arrivano, non è certo una luna di miele. Fanno pena a guardarli, però cominciano a capire, a giudicare, a criticare, ed è già un passo grande.

Grazie!

Testimonianza del vescovo di Tunisi
a cura di Elena Goisis
da Nuovo Progetto agosto-settembre 2005

 

 

 

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