Divieto di conversione

Pubblicato il 31-08-2009

di Loris Dadam



Il tema della libertà di religione è tornato di stretta attualità dopo le recenti violenze nei confronti dei cristiani in India. Riepiloghiamo la situazione in un ampio numero di Paesi.

di Loris Dadam



Uno degli ultimi numeri dell’Economist pubblica un articolato rapporto
sulla crescente difficoltà esistente nel mondo contemporaneo a cambiare credo religioso e spiega che spesso le persecuzioni dei “convertiti” non hanno cause spirituali quanto politiche e di potere.
Con l’eccezione degli Stati Uniti, dove, in omaggio alle proprie origini, dovute a pellegrini in fuga dalle persecuzioni religiose in Europa e in tutto il mondo, la libertà di culto è assolutamente piena, tanto da fondarvi parte della propria politica estera. Circa il 25% degli americani, durante la vita, sceglie una religione diversa da quella di origine; il resto del mondo, con gradi diversi, presenta difficoltà e discriminazioni per chi voglia convertirsi ad un altro credo.

In molte realtà sociali diffuse la religione non è vissuta solamente come una realtà spirituale, ma come una forma di identità politica che consente alla comunità (la famiglia, il villaggio, lo Stato) di intervenire in modo coercitivo.

  odioweb.jpg

L’esempio più noto è ovviamente quello dei musulmani che, malgrado il Corano dica che “non c’è costrizione nella religione”, pensano che lasciare l’islam sia, nel migliore dei casi, un peccato gravissimo, nel peggiore, meritevole di morte. Molti altri musulmani, specialmente quelli che vivono in occidente, pensano che lasciare l’islam sia un problema fra il credente e Dio e che lo Stato debba evitare di entrare in questi argomenti. Resta però il fatto che molti testi di giurisprudenza supportano la tesi della morte per gli apostati.

Questa legge è rimasta in vigore in Afghanistan anche dopo la cacciata dei talebani, come è emerso con il caso di Abdul Rahman, condannato a morte dopo che la polizia lo ha trovato con una Bibbia, poi salvato dalla pressione diplomatica occidentale.
In Malesia, dove la libertà religiosa è scritta nella costituzione, la legge islamica (la sharia) è comunque applicata parallelamente e con crescente potere in tutti i 13 Stati della federazione. Difficilmente i tribunali permettono di lasciare l’islam e chi ci prova viene sottoposto a forme di rieducazione forzata.


La tesi esposta nell’articolo dell’Economist
è che, comunque, le controversie causate dalle conversioni abbiano più una causa politica e di potere (all’interno delle famiglie e dello Stato) piuttosto che religiose. E queste cause sono diffuse in numerosi Paesi del mondo, non solo quelli prevalentemente musulmani.

Negli anni tragici dell’Irlanda del Nord, il passaggio da cattolico a protestante o viceversa sarebbe sicuramente avvenuto a rischio della vita, in particolare fra la classe operaia di Belfast. E sicuramente i motivi non erano religiosi. Quando gli inglesi colonizzavano l’Irlanda, era molto difficile per i cattolici possedere la terra malgrado fossero la stragrande maggioranza della popolazione, e così si è assistito al fenomeno delle conversioni di convenienza.

In molti paesi europei si è assistito alla conversione opportunistica di ebrei al cristianesimo per poter accedere alle università o nella pubblica amministrazione.
Oggi il Paese ove questo rapporto fede-potere è più chiaro ed istituzionalizzato è il Libano, dove tutto il potere politico è organizzato lungo linee confessionali (dagli hezbollah ai cristiani maroniti) e dove cambiare credo religioso è virtualmente impossibile.

Anche nella (relativamente) laica Turchia le minoranze ebree, greco-ortodosse ed armene hanno dei diritti riconosciuti ma poco rispettati, mentre i cristiani ed i musulmani dissidenti sono sottoposti a pesanti pressioni perché si conformino alla maggioranza sunnita.
In Grecia il proselitismo religioso è anticostituzionale. In Egitto, per costruire una chiesa cristiana è necessario il permesso del capo dello Stato.

tempioweb.jpg 


In Russia prosegue la tradizione dello Zar e dell’URSS di dividere i cittadini in gruppi etnico-religiosi (compresi ebrei e musulmani). La Chiesa maggioritaria cristiano-ortodossa ancora oggi respinge, con l’appoggio dello Stato, qualsiasi tentativo di proselitismo in particolare da parte delle altre religioni cristiane.

Nella stessa India, che ha una costituzione che proclama uguali diritti per ogni cittadino, gruppi religiosi differenti esercitano differenti leggi familiari e sono trattati in maniera diversa dallo Stato, creando incentivi alle conversioni di comodo. Gli Stati governati dal Partito nazionalista (BJP) hanno adottato nuove norme che impongono a chiunque voglia cambiare religione di denunciarlo al magistrato locale 30 giorni prima, pena una multa. Si stabilisce inoltre il carcere fino a due anni per chi converte qualcuno con la forza, ma anche con pratiche di convinzione, fra cui l’aiuto ai poveri, come fanno i nostri missionari.
I cristiani, in India, sono ufficialmente il 3% della popolazione, ma si pensa che siano almeno il doppio, non dichiarati per paura di perdere la possibilità di lavorare per la pubblica amministrazione o di frequentare le università.

Da tutto ciò si può constatare come chi, un giorno, ha detto “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, aveva visto lungo.


Loris Dadam
da Nuovo Progetto agosto-settembre 2008

 

Per approfondire:

www.asianews.it

www.acs-italia.glauco.it


Vedi anche:


Libertà perseguitate, di Bernardo Cervellera

Martiri: perché ? , di Lorenzo Fazzini

 

 

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok