DONNA: La cultura dell’infibulazione
Pubblicato il 31-08-2009
Il 9 gennaio 2006 il Parlamento italiano ha approvato la legge n.7/2006, che introduce nel codice penale un nuovo reato: la mutilazione degli organi genitali femminili.
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Una legge, la n.7/2006, preceduta da un lungo dibattito, nel quale si sono mescolati, a volte sino a confondersi, valori e piani diversi, dal diritto della donna alla propria integrità e dignità alla libertà di religione, alla specificità culturale. Sul banco degli imputati una pratica, l’infibulazione, che ha radici molto lontane dalla nostra cultura ed una storia millenaria. E che ha mietuto già centinaia di milioni di vittime, provocando spesso gravi problemi fisici e psicologici, a volte la morte; rendendo dolorosi i rapporti con l’uomo e causando frequenti complicazioni durante il parto.
Consistente nell’asportazione, parziale o totale, degli organi genitali femminili esterni e nella cucitura quasi completa della vagina, viene spesso realizzata tra le mura domestiche, con strumenti non sterili e conseguente elevato rischio di infezioni. Quand’anche realizzata in ospedale, penalizza comunque in modo irrimediabile la sessualità delle donne che la subiscono. |
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Le chiedo di spiegarci come nasce questa pratica. “La tradizione – racconta - è arrivata in Somalia dall’Egitto: per questo da noi si chiama “infibulazione faraonica”, ed è la forma più radicale. Poi è stata considerata una pratica religiosa islamica obbligatoria, come era per i maschi la circoncisione. In realtà il Corano la prevede solo per i maschi. E tutti effettuandola si sentono male, anche i maschi”. Eppure il dolore e i rischi che ne conseguono non sono un deterrente sufficiente: come mai? Nella cultura dei Paesi nei quali viene effettuata, si ritiene che i genitali siano parti del corpo sporche e fonte di tentazione; la loro asportazione è perciò considerata necessaria perché le donne siano “pulite” ed è un requisito di bellezza. “Di solito sono le madri che ci tengono di più – spiega Suad - come tengono alla purezza prima del matrimonio: se una ragazza ha rapporti sessuali prima, o non ha fatto l’infibulazione, nessuno la vuole sposare”. Anche lei si è trovata, a sette anni, a fare i conti con questa tradizione e come per tutte le sue coetanee la pressione psicologica della cultura nella quale si trovava immersa ha avuto la meglio rispetto alla paura e perfino al tentativo del padre di dissuaderla: |
“Mio padre, che aveva studiato all’estero, sapeva che non era una cosa naturale ed era contrario. Ma io mi vergognavo, mi sentivo diversa dalle altre bimbe. Era una questione di orgoglio. Ho fatto una settimana di digiuno perché volevo essere come le altre. Mio padre, alla fine, ha ceduto ma mi ha fatto effettuare l’intervento da un medico ed in forma meno invasiva rispetto a quella “faraonica”. Io all’inizio ero contenta, poi però sono cominciati i dolori…”.
Ora la nuova legge italiana prevede campagne informative sia in Italia sia nei Paesi in cui l’infibulazione è effettuata, presso i consolati e alle frontiere italiane. Inoltre l’Italia concede asilo politico alle donne che fuggono dal loro Paese per evitare di esservi sottoposte a forza (vedi www.meltingpot.org). È questo il caso di Blessing, che qualche anno fa ha chiesto accoglienza all’Arsenale della Pace. Ci ha raccontato la sua storia: |
Una storia drammatica, quella di Blessing, fatta di violenza e sopruso, comune alle storie di tante altre donne in ogni parte del mondo: l’infibulazione è diffusa in 28 Paesi, africani, asiatici e del Medio Oriente e nelle comunità di immigrati in Paesi occidentali. Numerose persone ed associazioni lavorano per la sua abolizione.
Già anni fa Thomas Sankara, primo Presidente del Burkina Faso, si era pronunciato in tal senso: “L’infibulazione è un tentativo di conferire alle donne uno status di inferiorità, marchiandole con un segno che le svaluta ed è un continuo ricordar loro che sono solo donne, inferiori agli uomini, che non hanno alcun diritto sui propri corpi o ad una realizzazione fisica o della persona”. |
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Ad oggi però solo 14 dei Paesi africani interessati proibiscono la pratica, con leggi la cui attuazione è ostacolata da forti pressioni sociali.
Elena Goisis |