DONNA: La cultura dell’infibulazione

Pubblicato il 31-08-2009

di Elena Goisis


Il 9 gennaio 2006 il Parlamento italiano ha approvato la legge n.7/2006, che introduce nel codice penale un nuovo reato: la mutilazione degli organi genitali femminili.

di Elena Goisis

8 marzo: perché parlare di donne?
La nostra esperienza all’Arsenale della Pace è affollata di volti, di storie incontrate, soccorse o semplicemente ascoltate… Volti di donne che hanno perso la vita o l’integrità fisica o l’equilibrio psicologico, sottoposte ad umiliazioni e tensioni che ancora oggi, a terzo millennio iniziato, marchiano in modo indelebile non solo loro ma spesso anche i loro cari, i loro figli.

Sono centinaia di milioni (“milioni” di persone, non noccioline), ogni anno, nel mondo! La loro età scende continuamente, tanto da non poter più distinguere le vessazioni su donne adulte da quelle su minori, a volte su neonate. E ci viene il terribile dubbio che anche la percezione della gravità delle violenze che subiscono scenda: è quanto sembra indicare la recente sentenza della Corte di Cassazione, stabilendo che lo stupro di una minorenne è meno grave se la ragazzina ha già avuto rapporti sessuali.

Ecco perché è un dovere parlarne, delle donne, come dei bambini soldato, dei profughi di guerre o politiche ambientali perverse, di chi muore a causa della fame, della siccità, di malattie curabili. E sarà un dovere fino al giorno in cui la nostra comune umanità, di uomini e di donne, non sarà più deturpata da queste infamie.

Il 9 gennaio 2006 il Parlamento italiano ha approvato la legge n.7/2006, che introduce nel codice penale (art.583 bis) un nuovo reato: "Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili è punito con la reclusione da quattro a dodici anni”. Di cosa si tratta?

di Elena Goisis
Una legge, la n.7/2006, preceduta da un lungo dibattito, nel quale si sono mescolati, a volte sino a confondersi, valori e piani diversi, dal diritto della donna alla propria integrità e dignità alla libertà di religione, alla specificità culturale. Sul banco degli imputati una pratica, l’infibulazione, che ha radici molto lontane dalla nostra cultura ed una storia millenaria. E che ha mietuto già centinaia di milioni di vittime, provocando spesso gravi problemi fisici e psicologici, a volte la morte; rendendo dolorosi i rapporti con l’uomo e causando frequenti complicazioni durante il parto.

Consistente nell’asportazione, parziale o totale, degli organi genitali femminili esterni e nella cucitura quasi completa della vagina, viene spesso realizzata tra le mura domestiche, con strumenti non sterili e conseguente elevato rischio di infezioni. Quand’anche realizzata in ospedale, penalizza comunque in modo irrimediabile la sessualità delle donne che la subiscono.

La Somalia è uno dei Paesi nei quali la pratica raggiunge la quasi totalità delle donne. Per questo abbiamo voluto parlarne con una donna somala: Suad Omar. Nata a Mogadiscio nel 1967, in Italia dal 1989, Suad ha frequentato uno dei primi corsi per mediatori interculturali a Torino, collaborando poi con l’Ufficio stranieri del Comune e con l’Associazione per donne immigrate “Alma Mater”. È spesso chiamata a portare la sua mediazione negli ospedali: “Le ragazze – dice - si vergognano molto quando il medico chiede loro di spogliarsi. In questi casi devo far capire che la salute è importante. Quando hanno le mestruazioni, poi, stanno molto male perché sono infibulate. Come quando partoriscono. E i dottori che sanno qualcosa di infibulazione sono davvero pochi”.

Le chiedo di spiegarci come nasce questa pratica. “La tradizione – racconta - è arrivata in Somalia dall’Egitto: per questo da noi si chiama “infibulazione faraonica”, ed è la forma più radicale. Poi è stata considerata una pratica religiosa islamica obbligatoria, come era per i maschi la circoncisione. In realtà il Corano la prevede solo per i maschi. E tutti effettuandola si sentono male, anche i maschi”. Eppure il dolore e i rischi che ne conseguono non sono un deterrente sufficiente: come mai? Nella cultura dei Paesi nei quali viene effettuata, si ritiene che i genitali siano parti del corpo sporche e fonte di tentazione; la loro asportazione è perciò considerata necessaria perché le donne siano “pulite” ed è un requisito di bellezza.

“Di solito sono le madri che ci tengono di più – spiega Suad - come tengono alla purezza prima del matrimonio: se una ragazza ha rapporti sessuali prima, o non ha fatto l’infibulazione, nessuno la vuole sposare”. Anche lei si è trovata, a sette anni, a fare i conti con questa tradizione e come per tutte le sue coetanee la pressione psicologica della cultura nella quale si trovava immersa ha avuto la meglio rispetto alla paura e perfino al tentativo del padre di dissuaderla:

Mio padre, che aveva studiato all’estero, sapeva che non era una cosa naturale ed era contrario. Ma io mi vergognavo, mi sentivo diversa dalle altre bimbe. Era una questione di orgoglio. Ho fatto una settimana di digiuno perché volevo essere come le altre. Mio padre, alla fine, ha ceduto ma mi ha fatto effettuare l’intervento da un medico ed in forma meno invasiva rispetto a quella “faraonica”. Io all’inizio ero contenta, poi però sono cominciati i dolori…”.

Suad è madre di due bambine,
le chiedo come pensa di regolarsi con loro; risponde che, d’accordo con il marito, non intende sottoporle a infibulazione, anche se sua madre e sua nonna lo desidererebbero. Ma alla cultura italiana chiede rispetto: “E’ difficile capire i motivi dell’infibulazione, appartiene ad un altro mondo, un’altra cultura. Mia mamma non ha certo voluto farmi del male, anzi per lei si è trattato di donarmi bellezza e purezza. Per cambiare questa tradizione occorre prima capirla e poi intervenire”.

Ora la nuova legge italiana prevede campagne informative sia in Italia sia nei Paesi in cui l’infibulazione è effettuata, presso i consolati e alle frontiere italiane. Inoltre l’Italia concede asilo politico alle donne che fuggono dal loro Paese per evitare di esservi sottoposte a forza (vedi www.meltingpot.org). È questo il caso di Blessing, che qualche anno fa ha chiesto accoglienza all’Arsenale della Pace. Ci ha raccontato la sua storia:

“Sono nata nel 1977 a Benin City, Nigeria,
da genitori di religione musulmana. Mia madre morì quand’ero piccola in seguito ad una malattia causatale dall’infibulazione. Mio padre morì nel 2001 durante gli scontri fra cristiani e mussulmani nel distretto di Sabon Gari e io dovetti fuggire dalla mia città. Mi rivolsi ad un amico di mio padre, un medico; mi diede cibo, un rifugio e promise di sposarmi. Scoprì che non mi era stata praticata l’infibulazione. Mi disse che avrebbe effettuato lui l’operazione su di me. Io rifiutai, scappai, ma mi riprese e mi torturò, i suoi amici mi violentarono e vollero infibularmi con la forza. Piansi e tentai di ribellarmi, ma il mio comportamento era contro la legge, la “Sharìa”. Riuscii di nuovo a scappare ed arrivai in Italia, dove ho presentato domanda di asilo politico”.

Una storia drammatica, quella di Blessing, fatta di violenza e sopruso, comune alle storie di tante altre donne in ogni parte del mondo: l’infibulazione è diffusa in 28 Paesi, africani, asiatici e del Medio Oriente e nelle comunità di immigrati in Paesi occidentali. Numerose persone ed associazioni lavorano per la sua abolizione.

Già anni fa Thomas Sankara, primo Presidente del Burkina Faso, si era pronunciato in tal senso: “L’infibulazione è un tentativo di conferire alle donne uno status di inferiorità, marchiandole con un segno che le svaluta ed è un continuo ricordar loro che sono solo donne, inferiori agli uomini, che non hanno alcun diritto sui propri corpi o ad una realizzazione fisica o della persona”.
Nella stessa direzione operava in Somalia Annalena Tonelli, la coraggiosa volontaria italiana uccisa nel 2003, e dal 1985 Aidos (Associazione italiana donne per lo sviluppo), con progetti in Africa e come partner della campagna internazionale “Stop FGM”. Nel 2004, in occasione della prima “Giornata internazionale della “tolleranza zero” verso le mutilazioni genitali femminili”, Amnesty International ha rivolto un appello a tutti i governi affinché siano adottate misure per garantire effettiva protezione alle bambine, nell’ambito di una più ampia protezione delle donne dalla violenza e dalla disuguaglianza.

Ad oggi però solo 14 dei Paesi africani interessati proibiscono la pratica, con leggi la cui attuazione è ostacolata da forti pressioni sociali.
E ogni anno 2 milioni di bambine rischiano di aggiungersi ai 135 milioni di donne che hanno già subito l’infibulazione.

Elena Goisis
da Nuovo Progetto Marzo 2006




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