Giornata della Memoria/2

Pubblicato il 31-08-2009

di Alessandro Moroni


Anche il mondo del cinema si è messo via via alla prova nella rappresentazione dell’Olocausto…


... di Alessandro Moroni


Il cinema tratta i grandi avvenimenti storici filtrandoli in base al milieu culturale della propria epoca di appartenenza. Ed è perfettamente logico che sia così: lo stesso si potrebbe dire per la letteratura, per il teatro, per le arti figurative e per la musica.
Negli anni ’50 e ’60, vale a dire l’epoca in cui la consapevolezza dell’Olocausto (o Shoa, in ebraico) si impose nel mondo occidentale gravandolo con un senso di colpa mai sperimentato prima, già reperire un cineasta, un artista, un uomo di cultura abbastanza coraggioso da affrontare il ricordo ancora fresco di un tale incommensurabile orrore costituiva un’impresa. E un solo modo poteva esistere per la sua rappresentazione: muto, attonito, diretto e angoscioso. Il linguaggio di chi si trovi proiettato di colpo dalla normalità del quotidiano al cospetto del male assoluto.

Oggi la sensibilità comune è mutata. Sarà forse per la progressiva assuefazione ad orrori successivi all’Olocausto e per certi aspetti ancora più abissali, a volte per la tipologia più scientifica delle torture e per il maggior numero di vittime (i Gulag comunisti in Unione Sovietica, che operarono a pieno regime per almeno un ventennio), a volte per altri fattori ambientali e contingenti (Rwanda ’94, Khmer rossi nel sud-est asiatico, Bosnia e Kosovo anni ’90).

Sarà semplicemente per l’inesorabile trascorrere del tempo, sarà per una combinazione di entrambi questi fattori; sta di fatto che oggi comincia ad imporsi uno stile di rappresentazione della Shoa molto più “obliquo”, che non disdegna il ricorso all’immagine grottesca, a suo modo caricaturale se non addirittura sarcastica. La progressiva umanizzazione di carnefici e vittime contribuisce, se possibile, a rendere ancora più tragico l’avvenimento: come è stato possibile, nel bel mezzo della civilizzata Europa del ventesimo secolo, che un manipolo di criminali progettasse e realizzasse impunemente, con la colpevole e silenziosa complicità collettiva, il massacro di 6 milioni di esseri umani?

I due film di maggior interesse e successo ad essersi occupati della questione in tempi recenti sono Schindler’s List, realizzato da Steven Spielberg nel 1993, e La vita è bella di Benigni (1997). Che cosa accomuna questi due capolavori, in apparenza antitetici? La rappresentazione sardonica dell’Olocausto e la visitazione dei suoi aspetti, diremmo, di grottesca normalità. E se questo si attua esplicitamente nel film di Benigni, con l’attore toscano che presta la sua ineguagliabile mimica alla parabola di un padre di famiglia ebreo che per mesi riesce a convincere il figlio, con lui rinchiuso nel campo di concentramento, che quello che stanno vivendo è null’altro che un gioco, nel capolavoro di Spielberg emerge invece in modalità molto più indiretta.

Pure l’assurdità di certe situazioni è palese in certi quadri di ordinaria follia quotidiana, da quello in cui l’Hauptsturmfuhrer Amon Goeth si rilassa al pianoforte strimpellando Chopin mentre le sue truppe crudelmente liquidano il ghetto di Cracovia, a quello in cui durante un rastrellamento nel campo di concentramento mirato a selezionare un numero di prigionieri per l’esecuzione sommaria ha un moto di dispetto nei confronti dei suoi sottoposti (“Ehi, quello è il mio meccanico! Chi ha avuto la pessima idea di farlo fuori?”).

Si tratta anche, ovviamente, di due film molto diversi per scopi e fattura, e la preferenza sarà di norma accordata all’uno o all’altro in base a criteri puramente soggettivi. Personalmente, non faccio mistero della mia preferenza per il film di Spielberg, non solo per un’idiosincrasia che da sempre coltivo nei confronti di Benigni regista (il fatto di essere mostruosamente bravi di fronte alla macchina da presa non implica automaticamente di esserlo anche dietro la medesima…), ma per la straordinaria efficacia di Spielberg nel donarci uno squarcio di realismo apparente – una costante del suo modo di lavorare – che in realtà costituisce uno spaccato sarcastico e crudele della sinistra normalità del male.
Alessandro Moroni

 

 

 

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