Globalizzazione: inevitabile o governabile?

Pubblicato il 31-08-2009

di andrea


Ogni riflessione sugli effetti della globalizzazione muove, come per riflesso condizionato, dall'immagine silenziosa degli aerei che falciano le torri…


...che recidono le nostre vacillanti certezze sulle interdipendenze
tra economie, società e culture.
Le interconnessioni economiche e finanziarie tra i mercati, i ridefiniti rapporti di forza tra gli stati, le dimensioni ormai planetarie della questione sociale, il dramma di un ambiente che soccombe ci appaiono ora come immagini sfocate dietro una densa cortina di fumo e di polvere.
 
   

Distruzione e morte, e per reazione ancora guerra e morte. Di fronte alle rovine, è naturale che si diffondano sgomento e angoscia, senso di impotenza e consapevolezza di una sproporzione enorme tra l'immensità dei problemi e la nostra capacità di capire, di reagire. Non è facile, dopo l'11 settembre, riprendere la parola sui grandi temi dello sviluppo, della cooperazione e della giustizia nelle relazioni internazionali. Violenza terroristica e guerra si alimentano a vicenda, e la spirale degli odi contrapposti, sullo sfondo di quello che fondamentalismi di diversa sponda cercano di presentare come un epocale 'scontro di civiltà', ci richiama a lealtà di campo che delegittimano - non a caso - tanto la riflessione critica, che l'azione propositiva. Motivo per cui diventa ancora più urgente tornare al pacato ragionamento e al confronto tra opposte visioni e interessi riprendendo, come nei recenti forum internazionali di Porto Alegre e di New York, una discussione drammaticamente interrotta, in occasione del G8 di Genova, dalla radicalizzazione della protesta e dalla dissennata reazione che n'è seguita.
 
 

  
    
 

In tale prospettiva, è necessario in primo luogo contrastare l'immagine di una globalizzazione economica soggiogata alla dittatura dei mercati come destino ineluttabile, contro il quale si accaniscono pochi nemici della modernità e del progresso mobilitati a difesa di interessi corporativi, nostalgici di un passato nefasto o dominato da ideologie solidaristiche ormai fuori del tempo. Se è vero che un'economia globale è "un'economia capace di funzionare come unità, in tempo reale, su scala planetaria" (Questa efficace definizione è di Manuel Castells, noto specialista di reti.), non è contro queste dinamiche che primariamente si manifestano le critiche. Fatta eccezione per alcune frange radicali, sicuramente minoritarie, non manca nella vasta galassia dei movimenti no-global la consapevolezza delle potenzialità positive insite in questo processo. Appare nondimeno evidente che ciò che s'intende contestare sono essenzialmente gli effetti deteriori della mondializzazione dei rapporti economici, a cominciare dalle transazioni finanziare di carattere speculativo e dai paradisi fiscali, in cui s'investono e si riciclano le immense ricchezze prodotte in modo illegale. Soprattutto, oggetto di critica è il falso secondo cui solo un'economia mondiale non regolata dagli stati nazionali o da un'autorità sovranazionale è in grado di offrire ai paesi poveri opportunità di crescita.

Al centro di preoccupazioni largamente condivise sono dunque le derive possibili di una globalizzazione non regolata: l'eliminazione delle pur deboli protezioni a difesa delle economie del terzo mondo, quando i paesi ricchi non rinunciano a proteggere i propri settori meno competitivi; il dominio incontrastato delle imprese multinazionali e del mercato dei capitali; lo smantellamento dei servizi pubblici e l'ingente trasferimento di risorse dal pubblico al privato realizzato attraverso privatizzazioni collusive; la difesa pervicace del diritto ad inquinare da parte del mondo industrializzato; la crescita delle industrie belliche, la sospensione dei diritti civili e la riduzione al silenzio dei dissidenti, giustificate dalla necessità di fronteggiare il terrorismo. Per non parlare delle inquietanti compenetrazioni tra gruppi finanziari, servizi segreti e strategie del terrore che, sia pure ancora confusamente, incominciano a prender forma sullo sfondo dell'11 settembre.

 
       
 A fronte di tali processi, la vera posta in gioco è la capacità di evitare che l'autorità degli stati, in cui ancora si esprime la forza degli elettorati democratici, sia posta fuori gioco, o peggio ancora sia posta al servizio degli interessi economici sovranazionali, come spesso è avvenuto negli ultimi due decenni. Il vero nodo è dunque quello degli spazi che ancora debbono essere assegnati alle autorità di governo, evitando che ulteriori fallimenti della politica generino le premesse per nuove guerre e sopraffazioni.   
 
 


Si sente spesso affermare che la globalizzazione economica produce
un arretramento degli stati e della sfera pubblica, ma quel che è certo è che la statualità si ridefinisce, si riposiziona su diversi livelli di governo, da quello locale e regionale alle autorità sovranazionali, offrendo nuove opportunità d'iniziativa civica e sociale a cittadini consapevoli e attivamente mobilitati. Mai come oggi si aprono spazi per iniziative di sviluppo o di riqualificazione sociale a vasta partecipazione popolare, capaci di attivare un'efficace cooperazione tra agenzie pubbliche e private, fino a ridisegnare le più stantie architetture istituzionali. La progettazione e la messa in opera di nuovi servizi pubblici, di nuovi lavori il cui contenuto di socialità non possa essere sostituito dalle tecnologie, la difesa e la valorizzazione di nuovi equilibri tra agricoltura e ambiente naturale diventano così il banco di prova di azioni capaci di riscoprire la forza dei legami sociali, di valorizzare un attaccamento non solo fisico ma anche culturale al proprio territorio. Per contro, in una visione neoliberista, la dimensione locale si riduce a quella di territori in concorrenza per favorire l'insediamento di grandi corporations al minimo costo.

Qualunque progetto alternativo di 'globalizzazione dal basso' presuppone che si costruisca una rete di azioni locali interconnesse in una sorta di arena democratica virtuale che travalica i confini nazionali, un'arena in cui si realizzi l'utopia di una società civile sovranazionale, aperta al confronto e capace di iniziative coordinate. Se la simultaneità e l'ubiquità rese possibili dalle tecnologie dell'informazione hanno sinora favorito soprattutto le società finanziarie, non è detto che non possano funzionare altrettanto bene per consentire più efficaci sinergie tra i movimenti. Di qui l'importanza di difendere le potenzialità democratiche di strumenti come Internet o il software libero, in grado di aprire spazi per ora solo immaginabili alla creatività e alla crescita di competenze individuali e collettive.

D'altronde, è proprio a partire dagli individui e dai piccoli gruppi che si pongono le premesse per costruire e valorizzare una concezione della cittadinanza aperta a società e culture in continua interlocuzione. Esistono per questo alcuni impegni ineludibili che interrogano ciascuno di noi in un ideale percorso di crescita: - conoscere il passato, saper rileggere la storia; - conoscere il punto di vista dell'altro e tenerne conto (ove non esprima solo intenti di sopraffazione); - non sottrarsi alla responsabilità di una proposta (o di una replica propositiva alle soluzioni proposte dagli altri). Ed esistono stili di vita, modelli di consumo e concezioni della socialità che bene possono esprimere una scelta di campo coerente con questa assunzione di responsabilità.

Una cittadinanza capace di tenere insieme dimensioni identitarie locali e doveri inderogabili di solidarietà e civismo sul piano sovranazionale presuppone infatti la forza delle idee, la capacità di persuadere attraverso le buone argomentazioni e insieme attraverso testimonianze ed esperienze esemplari. Ma a chi pensasse che tutto ciò altro non è che l'ultima versione di impossibili utopie, occorre anche replicare che in questo progetto la dimensione etica si fonde con quella utilitaristica. Per i poveri del mondo è l'unico modo di sottrarsi al proprio destino in un'economia globale che predica l'ineguaglianza come valore positivo. Per chi condivide un diverso universo di valori morali, è l'unico modo di sottrarsi all'arroccamento in sempre più esigui privilegi, all'omologazione dei comportamenti, alla standardizzazione dei modelli culturali e, in definitiva, al fallimento del proprio progetto di vita.

Fiorenzo Girotti (Sociologo dell'Università di Torino)

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