Guerra fredda sulle 64 caselle

Pubblicato il 31-08-2009

di Alessandro Moroni


La “sfida del secolo” tra il sovietico Boris Spassky e lo statunitense Bobby Fischer – morto il gennaio scorso - si giocò nel 1972, su una scacchiera. Ma in gioco c’era ben di più della statuetta di un re.

di Alessandro Moroni 

Il 18 gennaio appena trascorso un trafiletto d'agenzia appare su tutte le Home Page dei notiziari on-line: è morto a Reykjavik Bobby Fischer, già campione del mondo di scacchi, noto per essere l'unico americano ad avere infranto il dominio russo e dell'Europa dell'Est. Si tratta di un nome che non dice nulla ai più. Eppure c'è stata un’epoca in cui Fischer era ospite fisso delle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo. Tra l'11 luglio e il 1° settembre del 1972 l'americano diede vita, insieme al sovietico Boris Spassky, non solo alla sfida scacchistica più celebrata della storia, ma anche ad un evento che ebbe importanza tutt'altro che marginale nella Guerra Fredda in atto tra le due Superpotenze, Stati Uniti ed Unione Sovietica: era in gioco una sorta di predominio intellettuale tra due sistemi antitetici in tutto. In particolare, i media di tutto il mondo presentarono quel match disputato in 24 partite come la sfida tra l'esponente del dirigismo statalista sovietico, che aveva alle spalle un apparato sterminato di allenatori, psicologi e consiglieri a vario titolo, e l'americano "self made man", sbocciato nel deserto di una scuola scacchistica pressoché inesistente, almeno ad alto livello, e rappresentante di nient'altro a parte se stesso.
bobby.jpg
Bobby Fischer
Rileggendo oggi la storia di Bobby Fischer, l'immagine da uno-contro-tutti emerge e si consolida: nato nel 1943 e cresciuto a Brooklyn dalla sola madre in condizioni di notevoli ristrettezze economiche, imparò a giocare a scacchi in circostanze molto casuali a 8 anni. A 12 già era in grado di battere i più forti giocatori del suo Paese, a 14 si laureò Campione Americano e a 15 già scorrazzava in giro per l'Europa ad impressionare con la qualità del suo gioco i più grandi maestri internazionali! Un talento innato, esplosivo, sbocciato in modo totalmente autonomo e nell'ambiente più improbabile: già alla fine degli anni '50 erano in molti a predire al geniale Bobby un futuro da Campione del Mondo.
bobby2.jpg
1971. Tigran Petrossian e Bobby Fisher
Ma dopo i successi iniziali ecco le prime difficoltà. Bobby iniziò a palesare quelle caratteristiche caratteriali che lo avrebbero afflitto per tutta la vita: individualista oltre ogni limite, solitario fino alla misoginia, sospettoso, permaloso, afflitto da continui complessi di persecuzione, Fischer era "un uomo solo" quanto era possibile esserlo. La sua vita fu riempita sempre e solo dagli scacchi. A mantenerlo al di qua del pericoloso ciglio tra normalità e follia provvidero alcuni rari amici devoti, che si occuparono di tutti quegli aspetti pratici della vita che Bobby ostentatamente ignorava: da come ci si doveva vestire in pubblico, a come ci si doveva esprimere, all'atteggiamento da tenere quando si veniva intervistati.

Presto iniziarono a moltiplicarsi i tornei che Bobby abbandonava a metà e senza apparenti motivi. E così, a periodi di iperattivismo scacchistico, sempre o quasi caratterizzati da risultati eclatanti, ne seguirono altri di totale inattività.

Nel 1970, al culmine di uno di questi periodi di assenza dalle scene e quando già si cominciava a parlare di ritiro definitivo di Fischer dal gioco agonistico, riapparve improvvisamente ed inanellò due annate di risultati stupefacenti ed ineguagliati nella storia degli scacchi, non accontentandosi di battere gli avversari, ma umiliandoli tecnicamente e psicologicamente. Risultati che gli conferirono il diritto di sfidare il detentore della corona mondiale, il sovietico Boris Spassky, per quella che fu unanimemente definita "la sfida del secolo". A Reykjavik, capitale dell'Islanda, si consumò l'unico campionato del mondo di scacchi che ottenne una visibilità internazionale: l'esito delle partite finiva regolarmente in prima pagina ogni giorno, e nelle pagine interne lo spazio dedicato all'evento era sempre ampio. La sfida risultò senza esclusione di colpi non solo sotto il profilo tecnico, ma anche e soprattutto sotto quello politico e psicologico: Bobby Fischer iniziò malissimo, minacciando di non presentarsi a giocare se non fossero state accolte un'infinità di sue richieste, molte delle quali decisamente poco ragionevoli (dimensioni delle caselle della scacchiera, ronzio delle telecamere in sala, distanza tra i giocatori e gli spettatori, eccetera). A onor del vero va detto che il grande match si disputò solo perché dall'altra parte della scacchiera si trovava non solo il campione del mondo di scacchi in carica, ma anche e soprattutto un grande campione di umanità.

Boris Spassky era l'esatto opposto del "soldatino di apparato" dipinto dalla stampa occidentale. Era nato a S.Pietroburgo nel 1937, ma le sue caratteristiche personali ne facevano tutto, tranne l'uomo che avrebbe potuto impersonare al meglio i valori dell’ "agonismo socialista". Anche lui, come Bobby, era individualista; al tempo stesso però era un uomo pratico, concreto, disincantato oltre che colto, cordiale e sportivissimo, ai limiti dell'autolesionismo. Per il suo stile e la sua eleganza fu definito da un commentatore "il Cary Grant delle 64 caselle", e con molte ragioni.
bobby1.jpg
1972. La sfida di Reykjavik con Boris Spassky

Dichiarò di ritenersi fortunato ad essere nato in Russia sotto il regime comunista, ma solo per le opportunità di formazione scacchistica che quel sistema scolastico garantiva ai ragazzini: in pratica, in Unione Sovietica era impossibile che un talento andasse disperso, come invece accadeva regolarmente nel mondo occidentale. Non fu mai comunista e non partecipò mai alle iniziative ideologiche dalle quali la Federazione esponente di una delle attività intellettuali di punta in Russia non poteva certo chiamarsi fuori; cosa che non gli procurò praticamente fastidi fino al 1972 (perché il talento, anche in Russia, esentava da certi obblighi).

Spassky è stato un grandissimo giocatore, sicuramente il più forte nella seconda metà degli anni '60: non a caso, era l'unico ancora imbattuto contro lo stesso Fischer. Ma una volta diventato Campione del Mondo la sua carica agonistica si esaurì; e va detto che nel 1972, a 35 anni, senz'altro aveva già dato il meglio di sé, mentre l'americano si trovava all'apice della forma fisica e mentale. Il povero Boris si ritrovò in una situazione nella quale non avrebbe mai voluto trovarsi: mentalmente già scarico, trovandosi a fronteggiare il giocatore più talentuoso della storia e subendo la pressione di un apparato ideologico disumano di cui mai si era sentito parte in tutta la sua carriera.

bobby4.jpg
1992. La rivincita Spassky-Fischer
L'intera Unione Sovietica si aggrappava a lui come all'ultimo baluardo, atterrita dall'idea di perdere un titolo mondiale detenuto da 45 anni e vissuto come parte integrante del tessuto connettivo nazionale e, come se non bastasse, a vantaggio dell'esponente della nazione nemica per antonomasia... davvero troppo per chiunque, figuriamoci per un individualista e "uomo di mondo" come lui!

Boris Spassky cedette a Bobby Fischer
, ma solo scacchisticamente: umanamente stravinse e psicologicamente ne uscì molto meglio, anche se questo poté essere valutato solo dopo parecchio tempo.

La grandezza di Spassky fu nel non avere ceduto alla pressione psicologica dei dirigenti e dei molti "commissari politici" al suo seguito, che avrebbero voluto fargli interrompere il match reclamandone la vittoria a tavolino prendendo a pretesto le grottesche provocazioni e scorrettezze di Fischer: cosa che per lui avrebbe rappresentato la scelta più facile e comoda, data l'estrema situazione di difficoltà e disagio in cui gli toccò vivere nel corso di quei due disgraziati mesi. Spassky in pratica "decise" di perdere al tavolo di gioco anziché vincere a forfait; dichiarò sempre che aveva perso perché dall'altra parte della scacchiera c'era un tizio in quel momento più forte di lui, e non per chissà quale motivo esterno. Nella circostanza diede al mondo, che pure sul momento non se ne accorse, la dimostrazione di come si potesse essere grandi anche da perdenti.

Un episodio può valere per spiegare la situazione che si creò
, più di qualsiasi argomentazione: quando Fischer vinse la sesta partita del match (una vittoria definita "mozartiana" nella sua perfezione formale) tutto il pubblico si alzò e applaudì entusiasticamente, una cosa davvero rara nell'asettico mondo degli scacchi; e Spassky fece lo stesso, unendosi alla standing ovation, in un gesto che lasciò interdetto l'americano: il quale, con lo sguardo attonito, nell'uscire strattonò la manica di Lombardy, l'unica persona del suo seguito, esclamando: "Ehi, hai visto? Questa è classe!". Povero Bobby, stava succedendo qualcosa che andava molto al di là delle sue capacità di comprensione...

Spassky tornò in patria caduto in disgrazia: fu progressivamente emarginato dalla sua Federazione, che mai gli perdonò l'affronto di avere ceduto il titolo mondiale degli scacchi a un americano. Negli anni '80 si vide costretto all'esilio, stabilendosi a Parigi e acquisendo passaporto francese; oggi è un simpatico signore di 70 anni che parla correntemente 4 lingue ed è conteso dai circoli scacchistici di tutto il mondo, dove ancora delizia il pubblico con la ricchezza dei suoi aneddoti, con il suo charme e il suo prezioso senso dell'umorismo.

A Fischer andò molto peggio e con ragione qualcuno sostenne che fu proprio l'esito vittorioso del match di Reykjavik a determinarne il cortocircuito mentale. Dopo il trionfale ritorno in patria si isolò sempre più in se stesso, non disputando più una sola partita, rifiutando di difendere il suo titolo 3 anni dopo (si trincerò dietro una valanga di richieste talmente assurde, da essere certo che la Federazione Internazionale le avrebbe rigettate) e dando il via allo sprofondamento inesorabile nell'abisso della paranoia, evitato di stretta misura fin lì. Fu arrestato per vagabondaggio, si mise nei guai prima con il fisco e in seguito accettando di giocare un match di rientro nella Serbia di Milosevic sotto embargo internazionale, fece pubblicamente delle uscite infelici di tipo antiebraico e filonazista e, dulcis in fundo, plaudì entusiasticamente all'attacco contro le Torri Gemelle nel 2001.
bobby3.jpg
Una delle ultime immagini di Bobby Fischer

Infine fu arrestato in Giappone e instradato negli Stati Uniti, dove si fece un anno e mezzo di galera prima di accettare il passaporto islandese e trasferirsi a Reykjavik. Qui, devastato nel fisico oltre che nella mente, più che mai isolato da tutto e da tutti, si è spento il mese scorso per una grave forma di insufficienza renale, per la quale aveva rifiutato le cure mediche.

Che dire di un simile personaggio? Se lo scacchista più geniale della storia merita un ricordo rispettoso e ammirato, l'uomo merita la più profonda compassione.

Alessandro Moroni

Dello stesso autore:
RUDOLF HOESS, ovvero…
Mondiali di calcio: 76 anni di antropologia
L'uomo e lo spazio: sfida infinita (in 2 parti)

 

 

 

 

 

 

 

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok