Il carcere: vorrei vederlo sparire…

Pubblicato il 31-08-2009

di bruno


La redazione de “La Gazzetta Dentro” ha intervistato il responsabile dell’area trattamento della Casa Circondariale di Asti.

a cura de “La Gazzetta Dentro”

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L’intento è quello di chiarire un concetto che riteniamo prioritario: quello della coesistenza di due aspetti fondamentali della vita carceraria: Sicurezza e Trattamento, una collaborazione necessaria. Partendo da questo tema, l’intervista ha poi toccato altre situazioni che interessano la quotidianità all’interno della casa circondariale…

Ci parli di Lei e del suo percorso professionale.

Sono nell’Amministrazione Penitenziaria dall’83, al tempo non erano richieste come oggi qualifiche specifiche, bastava un diploma di scuola media superiore. Sono entrato nella cosiddetta “seconda ondata”, lavoravo già nel penitenziario minorile come insegnante professionale, così è stata per me la naturale evoluzione di un percorso iniziato.

Ho iniziato a lavorare come educatore al Don Soria (Casa di Reclusione di Alessandria) nel 1984, periodo in cui si cominciava a credere nelle pene alternative, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo ordinamento penitenziario (1975). Al Don Soria ho lavorato 14 anni. Nel ’98 sono stato destinato alla casa circondariale di Asti.

Dal ’75 ad oggi il carcere è cambiato, oggi si tende sempre più a rifarsi ai dettami della Costituzione che vuole la pena rieducativa e non afflittiva. Alla luce di questo concetto quanto è importante la presenza degli educatori all’interno del carcere?

Con la riforma dell’ordinamento penitenziario del ’75 la figura degli educatori all’interno degli istituti di pena è stata tra le più importanti per il cambiamento degli istituti stessi; basti pensare che in passato vi erano solo tre figure: il Direttore, il Cappellano e il Corpo di Polizia Penitenziaria, nonché qualche insegnante per i corsi scolastici interni.

Il carcere è mutato avvicinandosi di più alla società: da luogo definito “istituzione chiusa”, a luogo che cerca di essere sempre più aperto verso l’esterno. Gli educatori sono stati coloro che si sono battuti per migliorare i servizi interni al carcere, anche sul piano della vivibilità, perché non sia un luogo solamente afflittivo ma anche e soprattutto rieducativi: attraverso attività previste dalla legge e dall’’Ordinamento Penitenziario, come attività sportive, ricreative; attività ottenute attraverso convenzioni con Enti e Associazioni esterne; ad Asti questo avviene la Biblioteca della città e con l’associazione di volontariato EFFATÁ.

Altro compito importante del polo educatori è l’intervento sulla persona. Nel corso degli anni si è sempre più lavorato per un intervento personalizzato, con percorsi trattamentali specifici per ogni detenuto, tendenti a restituire alla società persone con un senso di responsabilità maggiore, che attraverso prese di coscienza possano decidere in modo più consapevole il loro futuro.

Spesso (è una nostra impressione) il trattamento e la sicurezza all’interno del carcere non collimano, anzi si scontrano, perché succede questo?

I due concetti sono antitetici o possono apparirlo. Da una parte la società chiede che le persone detenute non evadano: gli addetti alla sicurezza hanno il compito di evitare che ciò accada; ma anche il compito di evitare che i singoli siano fatti oggetto di soprusi da parte di compagni più arroganti ed aggressivi. Questi scopi si raggiungono limitando le libertà di movimento.

Le attività trattamentali tendono a supplire alla mancanza di libertà di movimento,
ecco che si deve cercare un equilibrio, una giusta modalità nell’agire, che permetta l’espressione dello spirito in una situazione di serena convivenza con un regime di sicurezza.

Qual è, a suo modo di vedere, il problema più grave all’interno del carcere in questo momento, e cosa si dovrebbe fare per migliorarlo?

Sicuramente il sovraffollamento è un problema grave, soprattutto in relazione ai servizi che il carcere deve offrire.
Altro problema sono: l’esiguità di operatori specializzati all’interno degli istituti, la difficile attenzione alle diverse tipologie di persone detenute ed in ultimo, non per importanza, il tipo di strutture. Ci troviamo con istituti costruiti durante gli anni dell’emergenza-terrorismo, quindi più consoni ad una maggiore sicurezza ma non adatti a un trattamento di recupero. Ad esempio il nostro istituto (di Asti) soffre della mancanza di locali come un teatro, spazi in cui le attività trattamentali possano essere soggettive. A mio avviso bisognerebbe che le strutture fossero più consone al tipo di progetti di recupero che l’Amministrazione Penitenziaria intende attivare.

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