Il gioco del caffè

Pubblicato il 31-08-2009

di Aldo Maria Valli


In occasione del vertice della Fao a Roma proponiamo una riflessione sull’importanza della solidarietà, quella che vuole eliminare i meccanismi della povertà e riempire gli stomaci.

di Aldo Maria Valli


caffe1.jpg Un mio amico missionario mi ha detto una volta: “Se vuoi avere successo nei salotti e far capire che sei una persona impegnata, devi fare una cosa sola: pronunciare la parola solidarietà”. È un giudizio tagliente ma azzeccato.
Dobbiamo riconoscere che la parola solidarietà è oggi tra le più inflazionate. La pronunciano un po’ tutti e con grande disinvoltura. Ma che cosa c’è dietro? L’impressione è che ci sia spesso solo la voglia di fare bella figura a poco prezzo. A proposito di prezzi, il mio amico missionario mi ha dato un suggerimento: “Guarda l’etimologia di solidarietà”.
Sono andato a guardare. Pagare in solidum indicava l’obbligazione da parte di un debitore. Era l’impegno a pagare integralmente il debito. Il che spiega anche perché dalla parola latina solidum deriva il nostro soldo.
La solidarietà e i soldi sono imparentati, ma non c’è da scandalizzarsi, anzi.

È nella Francia rivoluzionaria del 1789 che la solidarité prende il valore che le riconosciamo noi oggi, di sentimento fraterno che le persone devono provare verso chi si trova nella necessità.
Essendo di origine giacobina, la solidarietà ha in sé quella propensione a diventare parola di pronto intervento che è tipica di tutte le parole di matrice ideologica: come fratellanza, come uguaglianza. Sono belle e importanti, nessuno lo discute, ma anche un po’ facili. Chiunque le può usare a modo suo. Ecco perché i cristiani, magari inconsapevolmente, preferiscono parlare di carità. La carità non nasce dall’ideologia, ma dall’amore, e da un amore, quello di Gesù, che non ha vissuto di belle parole, ma ha pagato di persona.

Ed ecco perché non è del tutto inutile tornare alla concretezza etimologica della solidarietà, quel pagare in solido che ci permette di uscire dalla superficialità e dal manierismo. Oggi se si vuol promuovere davvero una cultura della solidarietà non si possono ignorare i meccanismi che determinano la frattura fra un mondo ricco che sfrutta e un mondo povero che viene sfruttato.
Non si tratta di essere manichei, di mettere tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra. Ci sono ricchi molto buoni e ci sono poveri molto cattivi.

La questione non è moralistica, è sostanziale. Tempo fa nel liceo frequentato da mia figlia Silvia alcuni volontari hanno proposto un gioco: i ragazzi dovevano produrre caffè e cercare di venderlo al prezzo migliore. Alcuni studenti hanno preso il ruolo di Paesi poveri, altri di Paesi di media ricchezza, altri di Paesi ricchi.
Infine ad alcuni studenti è stato affidato il ruolo di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, con il compito di dettare ai vari Paesi, ma soprattutto a quelli poveri, le regole di comportamento e soprattutto di ricordare loro l’enorme debito che pesa sulle rispettive economie. I ragazzi si sono messi di buona lena a produrre caffè e Silvia, che rappresentava un povero Paese sudamericano, era molto felice di aver scoperto un sistema di produzione alquanto redditizio per una qualità di caffè molto buona e apprezzata dal mercato.

Le vendite sono subito schizzate alle stelle, ma sul più bello ecco che i controllori internazionali si sono presi tutti gli utili per ripianare il debito, e così il Paese povero è diventato ancora più povero. Non solo. Gli stessi controllori hanno anche imposto al mercato i metodi di produzione e il tipo di sementi, arrecando vantaggi ai ricchi, che di quei metodi e di quei semi erano i produttori.
Credo che attraverso il gioco del caffè Silvia e i suoi compagni si siano fatti un’idea abbastanza precisa di che cosa sia la globalizzazione. In un mondo che è strutturalmente squilibrato, perché si vuole che sia così, è solidarietà vera tutto ciò che combatte e modifica relazioni commerciali intrinsecamente ingiuste.
caffe.jpg
Il nome autentico della solidarietà oggi è giustizia sociale. Cioè, come scrisse il grande papa Paolo VI nella Populorum progressio, “il ricomponimento in termini più corretti delle relazioni commerciali difettose tra popoli forti e popoli deboli”. Questa iniezione di concretezza non deve condurre al tecnicismo.
Per noi cristiani tutto ha origine e significato nell’amore di Dio Padre. Un amore che noi, in quanto creati a sua immagine e somiglianza, dobbiamo costruire a nostra volta e diffondere a piene mani. Ben sapendo comunque che il progresso degli uni, scriveva Paolo VI, non può essere un ostacolo allo sviluppo degli altri. Chiarita la missione, i mezzi per trasformarla in realtà possono essere i più diversi e tutto può contribuire allo scopo.
L’importante è non crogiolarsi in parole che giorno dopo giorno, a forza di pronunciarle, si sganciano dal mondo per diventare come palloncini gonfiati tanto belli da guardare ma anche tanto inutili. Ho incominciato citando un mio amico missionario e voglio chiudere citando un mio amico prete che mi dice spesso: “Ricordati che essere cristiani vuol dire essere soldati. Ogni giorno c’è da combattere una battaglia”.
Anche il soldato è imparentato con la solidarietà. L’arma è l’amore, certo, ma sempre di battaglia si tratta.


Vedi anche:
Eliminare la fame nel mondo (riflessione a cura del gruppo C.I.S.-Re.Te. del Sermig)
AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA… (altri link in calce)

 

 

 

 

 

 

 

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok