Il gioco dell’oca

Pubblicato il 23-06-2024

di Renato Bonomo

Mancano pochissimi giorni alla fine della Seconda guerra mondiale. Una giovane quindicenne ebrea italiana, internata in uno dei sottocampi del lager di Ravensbrück, numero di matricola 75190, ridotta a pesare 30 kg, si trova davanti il capo del campo in fuga. Lui ha appena buttato la pistola e la divisa e sta cercando di sfuggire all’imminente arrivo dei sovietici. Quella pistola è a pochi passi da lei, ha tutte le umane ragioni per volersi vendicare: ha perso la sua famiglia, ha subito tre selezioni, in una di queste ha perso un’amica, ha sulle spalle, nonostante la giovane età, un anno di lavori forzati in una fabbrica di munizioni (in seguito ricorderà di essere stata “fortunata” a svolgere quel lavoro perché stava all’interno dell’opificio che la proteggeva un po’ dal freddo, tutti gli altri che lavoravano all’aperto erano morti per la tosse e le intemperie), è sopravvissuta a una marcia della morte. Il suo primo pensiero è proprio quello di raccogliere le poche forze che le rimangono per fare fuoco. Ma poi prevale l’idea di non premere il grilletto, non vuole continuare nella catena dell’odio. Dopo essere tornata a casa in Italia, ha realizzato di essere una dei 25 sopravvissuti italiani deportati ad Auschwitz sotto i 14 anni su 776 internati. Il ritorno le rivela tutta la fatica di un reinserimento che non può annullare la tragedia vissuta. Un’esperienza apparentemente incomunicabile che spesso isola chi ha vissuto quelle immani fatiche. Così sembra essere anche per quella ragazza. Almeno fino al 1948, quando incontra sul litorale di Pesaro un uomo di dieci anni più anziano. Allora nel muro dell’incomunicabilità si apre un varco, il passato viene accolto, fasciato e abbracciato da uno sguardo pieno di quell’amore capace di salvare. Si innamorano, si sposano. Lei si chiama Liliana Segre, lui Alberto Belli Paci.

Vale la pena riascoltare la storia di Liliana Segre, non solo per ricordare la tragedia dell’olocausto, ma anche per scoprire il valore salvifico dell’amore e il significato determinante delle nostre scelte individuali e collettive.

Lo diciamo e lo scriviamo da tempo, siamo in una fase storica critica, inedita per le nostre generazioni. Ci troviamo come all’interno di una plancia del gioco dell’oca quando, dopo essere avanzati di una decina di caselle, siamo costretti a tornare indietro al punto di partenza. Ma nel nostro caso, non c’entra nulla l’imprevedibilità di un colpo di dadi. Negli ultimi anni con un’impetuosa accelerazione a causa del Covid, dell’invasione dell’Ucraina e di tutti i recenti focolai di guerre la nostra società sembra essere tornata indietro di tante, troppe, caselle per quanto riguarda la cultura della pace, del dialogo, del rispetto della dignità umana.

Rispetto ad alcuni anni fa il discorso sul riarmo, sulla violenza come soluzione delle crisi non è più un tabù. Anche il valore del rispetto della diversità sembra arretrare di fronte al sospetto, alla diffidenza e ai sovranismi. Tutti sono potenzialmente nemici: d’altronde come dicono alcuni eminenti uomini politici, come possiamo rimanere erbivori in mezzo a tanti carnivori?

Forse tra le tante ragioni di queste preoccupanti deviazioni, vi è un’attenuata consapevolezza storica che, venuta meno la voce dei testimoni della Seconda guerra mondiale, sta facilitando la diffusione di tesi revisioniste che sembravamo aver superato per sempre, almeno in Europa. Per questo motivo è necessario custodire quelle voci che ci ricordano che non esistono percorsi obbligati, che ci sono sempre alternative. Che si può sempre scegliere la pace, la non violenza, che si possono spezzare le catene dell’odio.


Renato Bonomo
NP Maggio 2024

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