Il paradosso

Pubblicato il 02-07-2022

di Paolo Lambruschi

Altro che Covid, in Africa il primo problema è ancora l’acqua. è tornata infatti la siccità mentre si rischia un conflitto per l’oro blu del Nilo tra tre grandi Stati dell’Africa orientale: Etiopia, Sudan e Egitto.
Andiamo con ordine. Oscillano tra i 13 e i 20 milioni le persone tra Kenya, Somalia e Etiopia che secondo le Nazioni Unite versano in condizione di grave insicurezza alimentare. Senza contare i 5,5 milioni i bambini affetti da malnutrizione acuta.

La siccità provocata dai mutamenti climatici che hanno fatto saltare tre stagioni delle piogge consecutive, ha decimato i raccolti (con perdite del 70% dei cereali essenziali per la dieta già povera di queste popolazioni) e provocato la morte di milioni capi di bestiame, principale fonte di sostentamento delle famiglie. In questo momento il Corno d'Africa è un caso emblematico del mix letale che provocherà fame e flussi di profughi nei prossimi anni: cambi di clima, Covid e conflitti. La siccità infatti è l'ultima emergenza che affligge popolazioni già provate dalle inondazioni anomale del 2019, dall'invasione biblica delle locuste iniziata alla fine di quell’anno e terminata ora e provocata dalle piogge alluvionali che hanno alimentato la schiusa delle uova. E mentre solo il 5% della popolazione è stata vaccinata, l’Etiopia da circa 500 giorni è dilaniata a nord da una cruenta guerra civile oscurata da black-out comunicativi ed energetici mentre a sud della capitale il conflitto con gli oromo, l’etnia più numerosa del secondo Paese africano, rischia di deflagrare aprendo un altro fronte.

Questa crisi ambientale, politica e umanitaria che sta destabilizzando il Corno è collegata alla crisi causata dalla Gerd, acronimo dato agli etiopi alla Grande diga del rinascimento sulle acque del Nilo Azzurro, nella regione occidentale di Benishangul-Gumuz in Etiopia, a 30 km dal confine col Sudan. Il 20 febbraio il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, il più discusso premio Nobel per la pace della storia, ha ufficialmente dato il via alla produzione di elettricità di cui il Paese ha bisogno per sviluppare l’industria e illuminare le strade.
Si prevede che il progetto da 3,7 miliardi di euro produrrà più di 5.000 megawatt di elettricità, raddoppiando la produzione di elettricità dell'Etiopia.

Quando sarà terminata (ora è all’84%) la maxi-diga che ha come main contractor l’italiana Webuild (ex Salini Impregilo) sarà l'impianto idroelettrico più grande d'Africa. Il mega impianto supporterà il Paese nel suo percorso di sviluppo e di avvicinamento all'obiettivo sostenibile di diventare carbon neutral, cioè senza energia da fonti fossili, entro il 2025.
Eppure la diga che produrrebbe energia pulita rischia paradossalmente di scatenare una guerra. Questo sfruttamento, sostengono i due Paesi rivieraschi, Sudan e ed Egitto, ridurrà la vitale portata d'acqua per l’agricoltura. E loro considerano la diga una minaccia a causa della loro dipendenza dalle acque del Nilo. Soprattutto l'Egitto, uno dei Paesi più aridi al mondo, che dal Nilo trae il 97% dell'acqua usata dai suoi oltre 100 milioni di abitanti. Il Cairo vuole un accordo vincolante sulla velocità di riempimento del bacino e sulla sua futura gestione, soprattutto in periodi di siccità come questo.

L’Etiopia no. I negoziati iniziati nel marzo 2015 e condotti dall'anno scorso sotto l'egida dell'Unione africana sono in un pericoloso stallo: il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha usato toni bellicosi mettendo in guardia sul fatto che: «nessuno è fuori dalla nostra portata».
Ognuno ha le sue ragioni, compreso l’ambiente che chiede di produrre sempre più energia da fonti rinnovabili per contrastare quei mutamenti climatici che in regioni fragili come il Corno assetano milioni di esseri umani. Ma se manca la volontà di svilupparsi assieme, se manca una politica di vera pace, l’energia pulita può sporcarsi di sangue.


Paolo Lambruschi
NP marzo 2022

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