In cammino con Luca (12/18)
Pubblicato il 27-09-2012
Essere pietre vive della chiesa [1] di p. Mauro Laconi - Le parabole della costruzione della torre e del re che parte per la guerra sono precedute dalle condizioni necessarie per seguire Gesù, oggetto di questa riflessione.
Continuando il nostro cammino insieme a Luca, siamo giunti al capitolo 14, dove ci soffermeremo su due parabole che occupano solo cinque versetti, dal 28 al 32. Come è nostra abitudine, prima di esaminare le parabole vedremo in quale contesto esse si collocano, e cioè quale sia l'episodio che le introduce, e quale l'insegnamento di Gesù cui sono collegate.
Il contesto
![«Siamo nei giorni che precedono la Pasqua, e molte persone stanno andando a Gerusalemme» La Pasqua ebraica](/media/images/stories/foto2010/luglio/pesah.jpg)
Essendo Gesù un personaggio molto noto, una piccola folla si accompagnava a lui. Non sono tutti discepoli, sono anche compagni occasionali, che vogliono approfittare dell'occasione per conoscerlo, vederlo da vicino, per sentire un suo insegnamento. E a queste persone Gesù, volgendosi indietro, dice quali sono le condizioni per trasformarsi da compagni occasionali in discepoli, formulando tre richieste molto dure, che investono i capisaldi della nostra esistenza: la nostra famiglia, i nostri beni, e persino la nostra vita.
Ma esaminiamo un po' più da vicino questo insegnamento, espresso in tre versetti, di cui due precedono le parabole (Lc 14,26-27), mentre il terzo le segue (Lc 14,33).
I detti di Gesù
Sono tre detti strettamente collegati tra di loro, complementari, e come tali è importante leggerli di seguito: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo».
![«Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo» - Immagine: Cerez Barredo, Murales della Catedral de la Prelatura Cerez Barredo, Murales della Catedral de la Prelatura](/media/images/stories/foto2010/luglio/sequela.jpg)
Questi detti ci lasciano sconcertati. Ci viene in mente la formulazione, per noi molto più accettabile, che troviamo in Matteo: «chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me...». Quale redazione è più vicina all'originale?
E poi ricordiamo che l'odio verso i genitori è in contrasto con i comandamenti: onora il padre e la madre. E ancora il rifiuto da parte di Gesù dell'istituzione del divorzio, che era diffuso in tutto il mondo, in nome di un legame tra uomo e donna che proviene da Dio, mal si concilia con le parole dure che leggiamo in Luca. Eppure, secondo gli studiosi, è più probabile che Gesù abbia proprio detto «chi non odia» piuttosto che «chi ama più di me».
Come spiegare questa apparente contraddizione? Ma non solo questo verbo odiare ci sconcerta. Anche il rinunciare a tutto, proprio a tutto ciò che si possiede, non sembra una condizione che si possa porre come regola generale ai discepoli, tenuto conto delle esigenze familiari, oltre che personali, di molti.
Gesù non ci ordina di accontentarci dello strettamente necessario, ma di rinunciare anche a quello, di non avere più nulla. Certo Gesù, quando usa il verbo odiare per i familiari più cari, si è abbandonato un po' ad un impeto retorico, per dirci che vuol essere amato da noi in modo tale che qualsiasi altro amore possa quasi sembrare odio. Ma ciò non basta.
L'applicazione pratica
Una migliore comprensione ci viene dall'esame della struttura delle frasi pronunciate da Gesù nel linguaggio in cui Luca ce le ha tramandate, il greco. Nel greco classico il tempo presente (chi non odia, chi non rinuncia) può avere un significato diverso dall'italiano, assumendo il senso non più di fare qualcosa, ma di essere pronti, essere disponibili a fare qualcosa. Il che d'altronde si trova anche nella lingua ebraica, dove alcune forme semplici del verbo possono implicare il concetto di potere, volere, desiderare, etc. Possiamo quindi rendere in italiano il detto di Gesù riguardante ad esempio tutto ciò che si possiede non con la forma chi non rinuncia ma con chi non è disposto a rinunciare.
Forse è proprio questa la spiegazione migliore, perché Gesù non mi chiede di buttar via ciò che mi è necessario - tra l'altro neppure lui l'ha fatto - ma di essere pronto a rinunciare a qualsiasi cosa io possegga. Anche il detto sulla famiglia ne esce illuminato: non ci viene proposto di abbandonare i genitori, il coniuge, i figli o i fratelli, ma di mettere Cristo al di sopra di tutti.
![«L'unico amore vero, pieno, totale, deve essere l'amore per Cristo» - Immagine: Ron di Cianni, Per sempre con Cristo Ron di Cianni, Per sempre con Cristo](/media/images/stories/foto2010/luglio/sposi.jpg)
Anche il secondo detto di Gesù, quello relativo alla croce, diventa comprensibile traducendo chi non è disposto "a". Infatti in quel detto non ci viene chiesto soltanto di portare la croce delle nostre piccole o grandi prove quotidiane, ma proprio di rinunciare alla nostra vita. Ora è evidente che Gesù non ci chiama tutti al martirio, alla suprema rinuncia alla vita. Ma ci ammonisce che dobbiamo essere pronti anche a quello, e comunque a perdere ogni giorno, pur senza morire, la nostra vita per lui.
La vita non è più mia, ma sua, non perché compio il supremo sacrificio, ma perché gli do ciò di cui la vita è fatta: tempo, incontri, azioni, affetti io li do a lui, e Gesù li prende perché vuole occupare tutto lo spazio della mia esistenza. Debbo sgombrare lo spazio della mia vita da ogni persona, ogni cosa, persino da me stesso perché egli lo possa occupare, per far posto a lui ed a lui solo. Mi accorgerò poi che Gesù non distrugge ma costruisce, e che le persone, le cose, la mia vita acquistano una realtà, una dignità nuova proprio dalla sua presenza.
Le parabole
Porre Gesù al primo posto è anche il senso ultimo delle due parabole, relative alla costruzione di una torre molto elevata, molto costosa, ed a una guerra molto rischiosa da intraprendere.
Cristo mi ricorda che mi sono fatto cristiano, sono diventato membro della Chiesa, non per ottenere ma per dare. Aderire al cristianesimo non è come associarsi ad un club culturale o anche religioso; se penso alla Chiesa come ad una associazione religiosa ho sbagliato strada. È invece un impegno a fare, e a fare qualcosa di molto grande, sapendo che non è sufficiente che io lo intraprenda e poi lo abbandoni a mezza via, ma che invece debbo portarlo a compimento.
Gesù mi chiama a grandi cose, per le quali debbo essere concretamente disponibile a dare tutto. Purtroppo è una convinzione troppo generalizzata, avallata anche da certi atteggiamenti ecclesiastici, che essere cristiani sia in fondo una cosa abbastanza agevole, che non richieda poi granché:
![«Non trasgredire grossolanamente ai comandamenti, andare in chiesa la domenica,... » Fedeli in chiesa](/media/images/stories/foto2010/luglio/chiesa.jpg)
Gesù ci dice esattamente il contrario e ce lo sta ripetendo in ognuna delle pagine di Luca che abbiamo sin qui considerato: seguire lui è una cosa grande, che richiede da noi cose grandi.
a cura della redazione
Fonte: incontri con padre Mauro Laconi o.p. all'Arsenale della Pace
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